Un ricordo di Massimo

Un ricordo di Massimo

Accolto l’invito ad onorare, nel mio piccolo, una tribuna autorevole come il blog di questo ateneo, mi sono affiorati alla mente diversi argomenti. Ma quale scegliere per aprire le danze? Guglielmo Marconi, ideale padrone di casa? Il ruolo dell’offerta musicale dentro e fuori il “Festival dei fiori”? Il mondo del cinema e l’auspicabile ritorno nelle sale? La scommessa dell’editoria negli anni del digitale? O, ancora, per stringere finalmente sulle mie mansioni accademiche, il valore e il senso stesso del mestiere della storia dell’arte?

Alla fine, posto che le radici non si possano né si debbano mai rinnegare, ho pensato di ricordare anch’io uno dei personaggi più singolari e dirompenti della cultura italiana (e sottolineo italiana) di fine secolo (fermo restando che sugli altri temi mi piacerebbe, prossimamente, aprire la discussione).

Attore talentuoso e visionario, comico e struggente, regista geniale e discontinuo cui le bizze di un cuore malato hanno giusto concesso di superare quarant’anni. Parliamo, naturalmente, di Massimo Troisi. E allora conviene intendersi. Noi siamo Troisi (scomparso nel 1994). Come siamo Eduardo (1986). Come siamo Pino Daniele e Luciano De Crescenzo, andati via rispettivamente nel 2015 e nel ‘19.

Ecco. Scomparire senza scomparire: il privilegio di pochi. Quelli che hanno definito le linee guida della cultura e della civiltà napoletane, provando a portarle fuori dai confini locali. Chi è cresciuto a Napoli o chi ci torni; chi cammina per queste strade con occhi e orecchie aperte, è infarcito di schegge di Troisi, di un frammento di una canzone di Pino o anche solo di un gusto del Principe de Curtis, in arte Totò. Non abbiamo bisogno di ricorrenze o scadenzari per ricordarci che siamo fatti (anche) di questo. Un patrimonio da difendere e coltivare.

Poi si sa. Massimo esplose nel paese (in tutto il paese) con ‘Ricomincio da tre’. Un film pressoché perfetto: nel soggetto, nei dialoghi oltreché nei tempi. I napoletani impiegarono tre secondi a impararne a memoria le battute salienti (ricordate Robertino?). Il passa parola fece il resto. Certo i cremonesi, i padani o i livornesi non capirono nulla di questo attore sulfureo, educatosi a teatro, che si mangiava le parole, impastando un lessico mezzo italiano e mezzo napoletano (un dialetto scattoso, tutto di tronche). Ma accorsero loro per primi se la mimica, come Totò insegna, è il vero linguaggio universale.

C’era Napoli certo; ma tutto il plot narrativo muove dal viaggio fatto da Massimo (e da una spalla ideale come Lello Arena) a Firenze (così bella e plumbea non si vedeva dagli “Amici miei” di monicelliana memoria). Per questo il film riuscì a raccontare un’Italia che provava a farsi largo negli anni ’80 dopo un decennio difficile e martoriato. La Cultura non ha confini né lucchetti. Che ne pensate?

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