
Donne nel famedio: cultura scolpita nella memoria
- Marzo 06, 2025
- di
- Angela Fraier
C’era un’aria strana quel giorno al Cimitero Monumentale di Trento. Il cielo era di un grigio sfumato, come se il tempo stesso avesse deciso di trattenere il fiato. Avevo deciso di visitarlo quasi per caso, spinta dalla curiosità di esplorare un luogo che custodisce la memoria della città. Non era la prima volta che riflettevo su come la storia viene raccontata, su chi viene ricordato e chi no. Con questo pensiero in mente, mi ero incamminata verso il cimitero.
Camminavo lentamente, lasciando che i miei passi mi guidassero tra le lapidi, cercando nomi noti, storie da immaginare, volti scolpiti nella pietra. A un certo punto, la mia attenzione venne catturata da una struttura più solenne, un’area che emanava un’aura di rispetto e riverenza. Mi trovavo nel famedio, lo spazio dedicato ai cittadini illustri e benemeriti, coloro che avevano lasciato un segno nella storia della città. I volti scolpiti nelle lapidi sembravano osservarmi, severi e impassibili. Cesare Battisti, Alcide De Gasperi. Nomi importanti, certo. Ma dov’erano le donne?
E poi l’ho vista.
Non un busto imponente, non una statua, ma una targa discreta, rettangolare. Posta nel 1999, il giorno 8 marzo, come se qualcuno avesse voluto lanciare un messaggio sottile, da scoprire solo con attenzione. L’anno della mia nascita.
L’ho letta una, due volte. Sei nomi incisi con cura. Sei donne. Sei vite che avevano attraversato il tempo lasciando un’impronta indelebile, ma invisibile agli occhi della storiografia androcentrica.
Le loro storie hanno cominciato a prendermi per mano, una dopo l’altra. Francesca Lutti Alberti, scrittrice, le cui parole dovevano aver acceso il cuore di chi le leggeva. Giulia Turco Turcati Lazzari, scrittrice e naturalista, capace di trasformare la scienza in un racconto vibrante. Antonietta Giacomelli, giornalista e scrittrice, una voce femminile che si insinuava in un mondo di penne maschili. Luisa Anzoletti, scrittrice e saggista, che doveva aver lottato per ritagliarsi uno spazio tra le righe della letteratura. Ernesta Bittanti Battisti, giornalista e letterata, che non era solo la “moglie di”, ma una donna con idee e sogni propri. E infine, Nedda Falzolgher, poetessa, che con i suoi versi aveva probabilmente catturato l’essenza della sua epoca.
Nate tra il 1827 e il 1906, queste donne avevano vissuto in un tempo che non le voleva protagoniste, eppure ci erano riuscite lo stesso. Avevano scritto, pensato, raccontato. Avevano osato.
Restavo lì, a fissare quella targa, e una domanda mi rimbombava nella mente: perché non le conoscevo? Perché il loro contributo era ridotto a un piccolo spazio nel famedio, mentre i nomi maschili dominavano il panorama del ricordo collettivo?
Mi ha colpito il silenzio intorno. Un silenzio che non era solo quello del cimitero, ma quello della storia che aveva scelto di dimenticarle, almeno fino al 1999.
Questa è una riflessione che va oltre quelle sei donne. Quante altre scrittrici, giornaliste, poetesse, scienziate sono state lasciate nell’ombra? Quante hanno dovuto lottare il doppio per ottenere la metà del riconoscimento? Pensiamo a figure come Ada Lovelace, la prima programmatrice della storia, il cui contributo è stato riconosciuto solo decenni dopo la sua morte, o a Rosalind Franklin, la scienziata che ha fornito le basi per la scoperta della struttura del DNA, ma il cui nome è spesso oscurato da quelli di Watson e Crick.
E il problema non si limita alla storia passata. Anche oggi, nel mondo accademico, scientifico e culturale, le donne devono spesso faticare di più per vedersi riconosciuto lo stesso merito degli uomini. Le loro pubblicazioni vengono citate meno, i premi più prestigiosi vengono assegnati con meno frequenza, e le loro voci, per quanto forti, faticano ancora a risuonare con la stessa autorevolezza.
Oggi, qualcosa sta cambiando. Le giovani generazioni leggono più autrici, conoscono nomi che prima erano ignorati. Ma è sufficiente? Quanto ancora dobbiamo scavare per riportare alla luce tutto ciò che è stato nascosto? Quante storie attendono ancora di essere riscoperte, raccontate, celebrate?
Mentre lasciavo il famedio, ho sentito una promessa crescere dentro di me. Non voglio che questi nomi restino solo su una targa al cimitero. Voglio raccontarli, voglio parlarne. Perché il passato non dovrebbe essere un luogo da visitare con indifferenza, ma un posto vivo, pulsante, da cui prendere slancio.
Raccontare queste storie non è solo un atto di giustizia storica, ma un investimento nel nostro futuro. Perché ogni ragazza che oggi si affaccia al mondo della scrittura, della scienza, del giornalismo, della cultura, ha bisogno di modelli a cui ispirarsi. Ha bisogno di sapere che altre donne hanno percorso quella strada prima di lei, che hanno combattuto e vinto, lasciando un’eredità che merita di essere conosciuta.
E così, mentre il vento si alzava leggero tra le lapidi, e il cielo si rischiarava, ho sussurrato un piccolo “grazie” a quelle donne. Non per ciò che avevano fatto solo per loro stesse, ma per tutto ciò che, senza saperlo, avevano fatto per noi. E con quel pensiero, ho lasciato il cimitero con un nuovo senso di responsabilità: essere una voce che contribuisce a ridare spazio a quelle che per troppo tempo sono state zittite.