Dalla parte sbagliata della porta

Dalla parte sbagliata della porta

Chi ha un gatto lo sa.

È sempre dalla parte sbagliata della porta. Quando è dentro casa vuole uscire, quando è fuori casa vuole entrare. Così, inizia quel richiamo insistente, che ti costringe ad alzarti per soddisfare la richiesta di turno, consapevole che, da li a poco, risentirai quel suono e dovrai ripetere l’azione all’inverso, come in un rewind psicologico, fino a che il felino non si placherà e non rivolgerà la sua insoddisfazione altrove.

Nonostante la premessa, la questione qui trattata non si riferisce al mondo dei quadrupedi bensì ai sapiens (in particolar modo ai giovani sapiens); e li riguarda, aimè, incolpevolmente.

Parliamo della fantomatica storia che, mutatis mutandis, come nei libri di scuola, si ripete ad intervalli regolari di tempo.

Come un mantra, passa attraverso le generazioni, si tramanda di padre (o madre, per par condicio) in figlio e giunge ai giorni nostri come un fastidioso e scomodo deja vù: I GIOVANI SONO SEMPRE DALLA PARTE SBAGLIATA DELLA PORTA.

Un piccolo sforzo di creatività è qui ed ora richiesto per immaginarsi una grande porta; una porta scura, alta, molto resistente e con tante differenti serrature volte a proteggere il prezioso e irraggiungibile contenuto: IL LAVORO.

Ecco, ora siamo arrivati al cuore della questione: i giovani, da una parte ed il lavoro, dall’altra.

Ciò che sta nel mezzo, dovrebbe essere un grande ponte arcobaleno, con ancelle (o “ancilli”, per par condicio), che prendono per mano l’inesperto fanciullo e lo accompagnano nella traversata, trasmettendo fiducia, per essere internazionali confidence, e speranza.

Invece no.

Nel mezzo c’è la nostra porta: grande, grossa e apparentemente invalicabile.

Per poterla aprire, raccontano le leggende, bisogna essere forti, impavidi, bisogna consegnarsi al sacrificio ed essere disposti ad immolarsi per la causa.

Va bene. Disponiamoci. Facciamolo. Armiamoci e partiamo.

Impegnativo, ma fattibile.

Invece no. Vi spiego perché.

Negli anni ’90 essere davanti alla porta e domandarsi cosa servisse per riuscire ad aprirla, quale fosse la chiave giusta per sbloccare le serrature, aveva la conseguenza di ricevere risposte dal Mago Merlino di zona (il Professore di italiano) o dal gazzettino di qualche rete televisiva, che davano per certa la ricetta per la pozione magica del momento: PER TROVARE LAVORO BISOGNA STUDIARE.

Al posto che coda di rospo e occhi di drago, come ingredienti c’erano:

a parità di età, chi ha una laurea ha più possibilità di trovare lavoro.

Logica conseguenza… facciamolo. I relativi genitori, reduci dalla precedente pozione magica del “posto fisso”, riponendo fiducia e speranza nell’effetto anelato, investono allora i loro risparmi per permettere ai figli di frequentare l’Università.

Così, i fanciulli, si laureano.

Bene, perfetto: fatica, sacrificio, successo.

E invece no, ancora una volta.

Perché qualcuno aveva dimenticato di dire che, oltre alla laurea, servivano altre piccole cose per poter finalmente approdare in un posto di lavoro. Negli annunci c’è scritto, come non notarlo:

“Si ricercano creature mitologiche munite di unicorno che enucleano in sé giovinezza, preparazione, autonomia e almeno 2 o 3 anni di esperienza nel settore”.

Così, loro malgrado, laureati e parents, preparavano le valige per approdare nel fantastico mondo del precariato, che avrebbe ospitato, per n anni, i giovani e promettenti ragazzi, ma non per sfruttarli (sia mai), ma per formarli a diventare veri professionisti del settore.

Così, appassionatamente, una generazione intera entra nel nuovo millennio, col suo pesante zaino sulle spalle che, ad un primo sguardo, sollevando la patta, contiene aspettative, sacrifici, ansie, voglia di riscatto, bisogno di sostentamento e via dicendo.

Finché, ohi ohi, un bel giorno arriva il Signor Covid. Un energumeno prepotente, malvagio, che con un colpo di spugna imbevuta di veleno, spazza via tutte le certezze non solo di una generazione, ma di un mondo intero.

All’incertezza si aggiunge incertezza, alla fiducia si sostituisce la sfiducia. Ciò che andava bene comincia ad andare male e ciò che andava male comincia ad andare peggio. Nulla è più lo stesso.

Attendiamo. Arranchiamo. Ci arrangiamo. Alla fine, ne usciamo.

Ma cosa troviamo al nostro ritorno in superficie? Un mondo diverso, con regole diverse.

E cosa ritrovano i nostri piccoli “sapiens”, che ora non sono più così piccoli, dopo anni di evoluzione?

Questo. Il nostro Mago Merlino di zona, o il famoso gazzettino TV, o peggio, qualche Euro Parlamentare, che davanti ai microfoni dice: “Oggi vogliono essere tutti Dottori, tutti laureati in giacca e cravatta. Mancano gli idraulici, gli elettricisti, consiglio di lasciare perdere l’Università e indirizzarsi sui lavori manuali”.

Ma come? Me lo dici così? Me lo dici adesso? E io che faccio? Cosa vale ora il mio (finoaqualchemesefa) indispensabile “pezzo di carta” costato anni di sacrifici e fatiche?

Io ora voglio dire una cosa, e lo voglio fare incanalando in delle lettere e nella loro stampa (anche virtuale) tutte le sensazioni e le emozioni della mia generazione e di tutte quelle dei ragazzi, boomer, millennial o genZ, che dir si voglia:

la cultura è tutto ciò che serve. La cultura è la fonte da cui ogni persona dovrebbe potersi abbeverare.

“Vogliono essere tutti Dottori”? SI, CERTO! Tutti dovrebbero potere e volere diventare Dottori in qualsiasi cosa vogliano. Perché a prescindere dal lavoro che ogni ragazzo andrà a fare, sono i libri che ha letto, le persone che ha ascoltato, le parole che ha scritto, che gli daranno la possibilità di capire dove si trova, di valutare una situazione, di relazionarsi con le persone che incontrerà nel corso della sua vita.

Tutto ciò gli permetterà di farsi delle domande, di capire se qualcuno o qualcosa è fake, lo aiuterà a valutare la decisione migliore.

Quindi, Signori della Corte, concludo la mia arringa con una considerazione, che racchiude in sé una speranza:

possono cambiare i tempi, le percezioni, i guru, ma la Cultura, quella non smetterà mai di essere la risorsa più importante che abbiamo, e anche l’unica arma sulla quale il nostro Stato dovrebbe investire.

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