La nostra grande bellezza

La nostra grande bellezza

In una delle più belle pagine della letteratura di tutti i tempi, un ragazzo di appena diciotto anni, già però profondamente malato e per questo probabilmente clinicamente depresso, domandava a un altro giovane uomo, anche lui portato per bocca per essere un “idiota”, come diremmo noi oggi, “uno con le rotelle fuori posto”: “È vero principe che una volta avete detto che la “bellezza salverà il mondo”?”, e, a seguire, preconizzando i nostri stessi dubbi: “Quale bellezza salverà il mondo?” – resta da chiedersi allora da chi o da cosa dobbiamo salvarlo questo mondo.

Beh, in quanto studentessa di Psicologia e appassionata della lettura, forse lasciandomi condizionare dal fatto che il libro preferito di Sigmund Freud fosse un’altra opera di Dostoevskij, I fratelli Karamazov, a me piace pensare che il grande scrittore russo abbia voluto lasciarci non soltanto un accattivante dilemma morale e filosofico, ma che, unendo un po’ i due aspetti e aggiungendone altri, magari in maniera timida ma lo stesso audace, del tipo che forse lo poteva scrivere per farlo dire a altri, ma non dirlo lui ad alta voce, o al massimo, se vi fosse riuscito, avrebbe potuto dirlo, ma con la voce tremante come se fosse sul punto di piangere, almeno all’inizio, perché poi avrebbe tirato fuori la grinta insita nella sua intelligenza e il rossore dell’imbarazzo si sarebbe trasformato in quello inconfondibilmente più viscerale della passione… Insomma, voglio pensare che Dostoevskij abbia voluto avanzare anche una straordinaria e ante litteram strategia terapeutica, rivolta a tutti e probabilmente in particolare ai giovani, dati anche i personaggi coinvolti (non è possibile del resto in questa sede approfondire a dovere quello che è ad oggi un campo assai stimolante dell’interesse scientifico: mi riferisco alla disciplina della neuroestetica).

Ora, a mio parere l’aspetto più peculiare della società contemporanea è il fatto che, pur essendo tutti, tramite cellulari e social, perennemente in contatto, ci sentiamo sempre e inesorabilmente più soli; pur avendo a disposizione infinite mappe e navigatori digitali, persi; pur essendo sopraffatti dalle cose, vuoti. Pur potendoci spostare da un capo all’altro del pianeta in relativamente poco tempo, noi conosciamo sempre meno il nostro mondo, semplicemente perché stiamo perdendo le parole per descriverlo, e siccome questo non può che essere in un certo senso traumatizzante, destabilizzante, lo prendiamo pure un appuntamento dallo psicologo: solo che se prima andare in analisi era quasi uno stigma, adesso si è trasformato soltanto in un altro dei nostri innumerevoli impegni, da inserire tra il lavoro e il corso di cucina. In breve, la nostra nuova tisi, la malattia del nostro secolo è diventata quella del troppo che non riesce a essere abbastanza, del troppo che continua incessantemente a cercare se stesso, del vicolo cieco, del gatto che si morde la coda (ah!, fa male, perché è la sua!).

Della serie: nelle foto su Instagram siamo bellissimi, però poi finiamo in ospedale perché per troppi pranzi abbiamo dimenticato di mangiare. Mettiamo continuamente in mostra i nostri corpi, ma ci odiamo. Facciamo volontariato, ma senza sapere per cosa, cioè secondo quale significato, tanto che finiamo per rimetterci la nostra stessa reputazione. Siamo amici di tutti, ma non siamo più in grado di scegliere – e difendere – fino in fondo niente e nessuno (e, infatti, lo diceva lo stesso Ippolit, facendo riferimento al principe: “ed io affermo che idee così frivole sono dovute al fatto che in questo momento egli è innamorato.”: se la sua amarezza deriva dal non poter vivere per ovvi motivi quel sentimento – che può riguardare una persona, ma anche una passione, un ricordo o un progetto, un ideale -, e forse dal non aver ancora avuto il tempo di provarlo, la nostra scaturisce dal non sapere più di desiderarlo).

Sembra dunque che la bellezza non possa oggi salvarci semplicemente perché noi non abbiamo niente da salvare: perché non abbiamo il coraggio di mettere a rischio nulla, proprio dato il fatto che passiamo tutto il nostro tempo a cercare di proteggere quello che già

abbiamo (e questo fa salire a temperature altissime la nostra ansia): perché siamo diventati ricchi, ma anche disperatamente avari.

Noi giovani non siamo in definitiva malati fisicamente come Ippolit, eppure non facciamo che lamentarci. Siamo i più bravi della classe – mica come quello scemo del principe Myshkin -, ma è la noia a logorare tutte le nostre energie.

Impegnati nella gara a chi trova più velocemente il maggior numero di risposte, dimentichiamo però che c’è un momento in cui occorre fermarsi per porsi delle altrettanto fondamentali domande.

Il risultato è lo stesso: ci sembra di non avere scampo. La bellezza è davanti a noi, ma non ci salva, perché noi non la guardiamo, o non abbiamo la pazienza di restarci fino a che possa fare effetto (nel frattempo potrebbe suonare la notifica di un nuovo messaggio o uscire un nuovo episodio della nostra serie tv preferita).

Ma è proprio perché la malattia mentale è diventata per noi davvero anche un problema morale che le parole di Dostoevskij dovrebbero risuonarci dentro e indicare una possibile svolta al nostro cammino (“è dal dolore che si può ricominciare”).

In questo senso, ritengo che un approccio come quello della Mindfulness, una pratica esperienziale che pone al centro dei suoi intenti proprio la necessità di interrompere il flusso incessante e improduttivo delle nostre (pre)occupazioni per mantenersi ancorati al momento presente, in modo non giudicante o critico, possa inserirsi coerentemente nel discorso di Dostoevskij e rispondere, almeno parzialmente, al nostro interrogativo (lo confermano i dati scientificamente provati rispetto agli esiti sul nostro funzionamento della pratica ideata da Jon Kabat-Zinn): sì, la bellezza – intesa come tutto ciò che è bene (morale) e che ci fa del bene (psicologico), a volte facendoci stare anche male, intesa come qualcosa che non dobbiamo indovinare, ma che ci si offre, che semplicemente c’è, il nostro unico obiettivo è farla diventare consapevole (mindful) – può essere in grado di trarre in salvo la nostra mente un po’ acciaccata (facciamo solo sì che ora la Mindfulness non diventi una superficiale moda).

Perché c’è davvero un vuoto dentro di noi, ma il problema non sta nel vuoto – dal momento che ciò che è assenza è anche possibilità -, ma in tutto quello che c’è intorno, in ciò che lo rende tale, e questo l’ho sentito sulla mia pelle anche quando, nei momenti di difficoltà, mi rendevo conto che suonare il mio amato Chopin era, di nuovo, troppo, mentre Bach poteva aiutare a darmi tranquillità (per questo ritengo che anche la musicoterapia possa rappresentare uno stimolante alleato nella pratica clinica). Di nuovo, la Mindfulness non è allora, come la bellezza, una semplice cura, o, meglio, lo diventa soltanto a posteriori: essa significa in primo luogo rendersi conto che guardare, e accettare, e accogliere è già dare significato, in senso unico personale, rendendo gli eventi che accadono parte della nostra storia – solo questo può, in definitiva, essere Arte.

Noi, a differenza di Ippolit, abbiamo ancora tempo: non perché non siamo malati, ma perché esistiamo e questo ci permette di trovare, non fuori, ma dentro noi stessi, in qualsiasi momento il nostro destino.

Cerchiamo per favore di non farcelo scappare via.

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