L’errore grammaticale come soloecismus

L’errore grammaticale come soloecismus

Un linguaggio inappuntabile può tradursi in un vizio?

A chi non capita di lasciarsi andare alla leggerezza di un’omissione sintattica o all’impiego di locuzioni talvolta sovrabbondanti? Caricare il nostro linguaggio di sane aspettative sulla resa ottimale dei concetti non è una sterile ridondanza, bensì uno slancio verso la purezza formale, ma spogliare la pratica di una lingua da incentivi agli errori intelligenti può diventare ugualmente cavilloso.  

Un errore intelligente può essere rappresentato dalle semplificazioni infantili dei costrutti, che riflettono comunque un atteggiamento di assimilazione, o addirittura dal maggiore ascendente fonetico esercitato da alcune forme scorrette: si pensi ai fascinosi e quasi arcaizzanti “fecimo” e “dissimo” in sostituzione dei non integrati “facemmo” e “dicemmo”, che molti parlanti mantengono inalterati anche alle porte dell’età adulta, ciò per ragioni relegabili al mutamento della radice di fare in “io feci” (i tempi passati sembrano portare con sé un’alterazione intuitiva, per questo il “fa-“ è convertito in “fe-“) e a un più orecchiabile raddoppiamento della s nel secondo caso.

Quello che dovremmo evitare di commettere in modo sistematico è l’errore che i latini identificavano come soloecismus, lemma ereditato dal sostantivo greco σολοικισμός (“soloikismòs”): le fondamenta storiche di questo curioso termine dotto, dal significato di “sgrammaticatura”, sono da rintracciare nell’avversione degli ateniesi per… Un uso bizzarro degli abitanti di una città nell’antica Cilicia!

Siamo in Asia Minore, per l’esattezza a Soli, tanto considerata la patria degli errori di lingua da essere registrata in un verbo che la ricorda, il σολοικίζω che si trova nei nostri dizionari e che vale “ricorro a barbarismi”. È difficile sgretolare dalla nostra psicologia il substrato dell’assuefazione a pronunce, espressioni o formulazioni non accademiche della lingua, ma è possibile lavorare su questo fronte favorendo l’allenamento alla comprensione dei propri errori e incentivando il riconoscimento di quelli intelligenti. Si deve pertanto alimentare la cultura dell’interscambio non solo tra le lezioni errate e quelle corrette, ma anche tra chi è solito sporcare il proprio linguaggio e chi ne detiene una conoscenza approfondita: l’utilizzo di una lingua unitaria è sinonimo di pace e coesione tra i membri di un popolo, dell’assenza di categorie e dell’annullamento dei gap sociali.

Ultimamente, nelle piattaforme digitali non realizzate per la didattica (quelle di intrattenimento o di semplice condivisione dei contenuti), sembra imperversare un trend che punta ad accentrare una particolare presunzione di sapienza, tipica di chi ha piacere nel differenziarsi attraverso comportamenti piuttosto derisori: si tratta dell’appunto sistematico agli errori grammaticali di utenti social sconosciuti, i quali possono anche adoperare semplificazioni grafiche uscite dall’uso del web (si pensi a “ke” per “che”). Sempre più giovanissimi, che beneficiano di una cultura idealmente vasta -garantita dalla frequentazione collettiva degli istituti scolastici-, si servono di moniti perlopiù improduttivi per attaccare persone più adulte o con una formazione lacunosa, soprattutto sul piano dell’impianto critico dei concetti e della resa grammaticale della lingua. Il fenomeno ha risvolti spiacevoli, tra cui la creazione di futili discussioni e del senso di inadeguatezza in chi cade in piccoli sbagli. Parlare e scrivere bene è dunque un antidoto contro l’ignoranza, il pressappochismo e l’assenza di acume, ma manifestare comportamenti divisivi può indurre a solecismi ancor più profondi, stavolta sul piano della comunicazione serena e delle relazioni interpersonali.

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