La saggezza dietro alla filosofia del Kintsugi
- Marzo 25, 2024
- di
- Laura Ferraro
Non mi pento dei momenti in cui ho sofferto, porto su di me le cicatrici come se fossero medaglie
Paulo Coelho
La storia del Kintsugi risale, secondo una leggenda, al XV secolo d.C, epoca in cui in Giappone inizia a diffondersi la cerimonia del tè, grazie agli scambi commerciali con la Cina.
Si narra che lo shogun Ashikaga Yoshimasa inviò in Cina la sua tazza da tè preferita, rotta, sperando che gli artigiani ceramisti cinesi potessero ripararla. La tecnica di restauro tradizionale però prevedeva delle antiestetiche e poco funzionali graffette metalliche, che non permettevano più l’uso proprio della tazza. Allora lo shogun incaricò dei ceramisti giapponesi per fare di meglio. Nacque così una nuova tecnica per il restauro della ceramica, il kintsugi appunto, che prevedeva l’uso della lacca urushi (un estratto vegetale) mischiata alla farina di riso, come collante. Dopodiché decisero di rendere preziosa la tazza, distribuendo della polvere d’oro sulla colla.
Lo shogun fu soddisfatto, la sua tazza oltre a essere di nuovo utilizzabile, era diventata un pezzo d’arte unico. La parola “kintsugi” infatti significa letteralmente “riparare con l’oro”.
La filosofia alla base del Kintsugi è quella del Wabi Sabi, una visione del mondo che parte da tre realtà basilari, ovvero che niente è eterno, tutto è imperfetto, tutto è incompleto. Mira quindi all’accettazione della caducità e dell’imperfezione. Esalta valori e caratteristiche quali la degradabilità, l’asimmetria, la naturalezza, l’immaterialità, la ciclicità, l’armonia, la tranquillità, l’intuizione, la semplicità, la modestia. “Wabi” sta a significare proprio la bellezza della semplicità e dell’essere soli nella natura, e “sabi” indica l’accettazione serena dell’avanzare dell’età e della vita.
La filosofia del Wabi Sabi è per molti versi in contrasto con la mentalità occidentale, che dà più valore alla simmetria, alla precisione, alla ricchezza, all’esteriorità. In molte parti dell’Occidente si è addirittura persa l’abitudine di seguire il ritmo della natura e delle stagioni.
In Occidente, a differenza che in Oriente, abbiamo l’abitudine di buttare via ciò che si rompe e questo deriva da una visione più consumistica del mondo, oppure tentiamo di riparare in modo invisibile l’oggetto rotto, come a nasconderne i difetti. Demonizziamo l’errore, il difetto, la mancanza, e aspiriamo a una perfezione utopica. Ci viene insegnato che per riparare “bene” un oggetto, bisogna fare in modo che torni come prima, che non si noti la rottura.
Questo purtroppo viene generalizzato anche a noi, che siamo portati a inseguire ideali di bellezza e perfezione sempre più irraggiungibili, ad essere sempre in ordine, felici, realizzati, produttivi, nascondendo tutto ciò che non rientra in certi standard. Siamo abituati a vergognarci dei nostri difetti, a volerli nascondere, correggere a tutti i costi, sottoponendoci a qualsiasi rimedio o trattamento ci venga sponsorizzato per ottenere risultati efficaci e immediati.
Attraversare un momento difficile, e soprattutto mostrarne le cicatrici dopo, ci provoca vergogna. Nella mentalità consumistica nella quale siamo immersi, qualsiasi crepa nel percorso verso il traguardo è vista come un fallimento, una debolezza, un ritardo. C’è un orologio sociale che tenta di prevaricare costantemente il nostro orologio personale, annientando l’autenticità.
L’Oriente ci insegna invece che proprio perché nulla può tornare come prima dopo una rottura, è bene “mettere in mostra” le cicatrici, che rappresentano nuovi punti di forza. Un vaso rotto e ricomposto in modo opportuno, infatti, non potrà più rompersi negli stessi punti di prima, perché ora quei punti sono più forti. E così come il vaso, anche le persone dovrebbero fare tesoro di questo insegnamento, per riconoscere la bellezza insita in ogni cicatrice. Inoltre, il kintsugi è un lavoro lento, richiede pazienza, insegna ad attendere per ottenere un buon risultato, a rispettare i tempi della materia.
Questa è un’ottima metafora del lavoro dello psicologo o dello psicoterapeuta, che guidano la persona verso una nuova consapevolezza di sé, dei suoi punti di forza e delle sue fragilità, valorizzando sia gli uni che le altre. E anche il lavoro di terapia richiede tempo e pazienza, acquisire nuova consapevolezza di sé, cambiare le abitudini, elaborare un trauma, superare un periodo di difficoltà, sono tutti processi che richiedono la capacità di attendere e una grande fiducia nell’attesa. Come nel kintsugi è necessario lavorare sulle crepe, smussare, togliere gli eccessi, pulire e “disinfettare” la ferita con pazienza, così è nella terapia, che richiede un lungo e lento lavoro su di sé. La persona dopo la terapia è allo stesso tempo la stessa persona ma anche una persona radicalmente nuova, perché ha affrontato delle difficoltà e le ha superate senza dimenticarle, è cresciuta in una versione migliore di sé.
Questo processo lo vediamo anche in natura. Pensiamo alle ostriche, quando un corpo estraneo, come ad esempio un parassita o un predatore, si insinua nei tessuti molli delle ostriche, queste iniziano a produrre secrezioni che, strato su strato, negli anni, formano quelle che noi chiamiamo perle.
L’obiettivo del Kintsugi non è quindi quello di curare la persona, dimenticare o accettare una ferita, il suo essere terapeutico non sta in questo, ma nella sua capacità di valorizzare il talento, unico e individuale, che ha permesso di superare una determinata situazione di crisi. Non si ripara un vaso, lo si ricompone. Ci sono infatti ferite che non possono essere risanate, come ad esempio un lutto, un grave incidente, una catastrofe ambientale, sarebbe anche sbagliato porci l’obiettivo di “aggiustarle” in fretta, o di aiutare qualcuno a farlo. La filosofia giapponese ci viene in soccorso suggerendoci di renderle preziose, valorizzarle e valorizzarci, in modo da ricordarci quanta forza e quante risorse abbiamo in serbo. E ci insegna che possiamo essere feriti e fragili, ma anche forti e splendenti allo stesso tempo, vedendo nella fragilità un punto di forza. Dall’imperfezione, così come da una ferita, può nascere una forma ancora più grande di perfezione, sia esteriore che interiore, una perfezione che è tale per la sua unicità e autenticità.