Artemisia pittrice: femminista ante litteram

Artemisia pittrice: femminista ante litteram

Artemisia, nome di origine greca che deriva da “Artemis”, associato alla dea della caccia, dei boschi, delle vergini, dei parti e della luna, simbolo di forza, indipendenza, fascino e potere femminile. Un nome portato da donne forti, come Artemisia I di Caria, coraggiosa regina, abile stratega e unica condottiera donna durante la seconda guerra persiana.

Con questo stesso nome, l’8 luglio 1593, a Roma, Orazio e Prudenzia Gentileschi chiamarono la loro prima figlia, quasi a segnarne il destino.

Prima di sei fratelli, unica femmina, Artemisia Gentileschi perse la madre molto presto ed ereditò il compito di occuparsi del padre e dei fratelli, da brava “donna di casa”, ruolo che già sentiva stretto. Attorno a lei un costante via vai di garzoni e pittori, amici e colleghi di suo padre, autori di bellissimi dipinti raffiguranti donne, sante, eroine della storia pieni di sacralità, dolcezza, innocenza, che stridono con i discorsi volgari e le oscenità riservati da quegli stessi uomini alle donne reali. Artemisia cresce in un ambiente ricco di scontri, rivalità, e concorrenza spesso sleale.

Ben presto si interessa alla pittura, sconcertando il padre che non sa come reagire al fatto che l’unico figlio ad aver ereditato il suo talento e la sua passione per la pittura è, in realtà, una figlia, in un’epoca in cui solo gli uomini erano pittori.

Non potendone negare il talento, il padre finisce per assecondarlo, insegnandole il mestiere.

Nel 1612 Orazio scrive:

Questa femmina, in tre anni, si è talmente impratichita che posso ardir di dire che oggi non ci sia pari a lei, avendo persino adesso fatte opere che forse i principali maestri di questa professione non arrivano al suo sapere.

Artemisia si contraddistingue da subito oltre che per il grande talento, per il suo carattere forte e disobbediente, poco disposto alla sottomissione che le era richiesta dalla società.

Era anche molto bella, tanto da attirare sguardi e maldicenze, per questo, il padre decide di prendere in casa Tuzia, figura femminile di riferimento, per fare compagnia e controllare la figlia.

La storia di Artemisia è costellata da violenza, tradimenti, umiliazione, senso di colpa e povertà, ma anche da determinazione, forza, coraggio e resilienza. Già dalla sua prima importante opera, ovvero “Susanna e i vecchioni” datata tra il 1610 e il 1612, risalta il forte contenuto autobiografico dei dipinti di Artemisia, oltre al grande talento e la tecnica posseduti fin dalla giovane età.

Nel quadro, la protagonista del racconto biblico è rappresentata nel momento in cui, mentre fa il bagno, viene guardata da due anziani che le propongono, minacciandola, un rapporto sessuale. Al suo rifiuto verrà accusata di adulterio ma sfuggirà alla pena di morte dimostrando la sua innocenza. L’opera sembra quasi un presagio di ciò che in modo analogo succederà anche ad Artemisia.

L’evento che segna l’adolescenza e la carriera futura di Artemisia è lo stupro da parte di Agostino Tassi, suo insegnante di prospettiva e collega e amico di suo padre. Il fatto avviene con la complicità di Tuzia, che viene abbindolata per favorire gli incontri tra i due, nel febbraio del 1611. In seguito allo stupro, Tassi tenta di convincere Artemisia della sua buona fede, promettendole di sposarla, regalandole un anello, per assicurarsi altri incontri con lei. Ma l’uomo all’epoca era gia sposato.

Allo stupro seguirà una denuncia, che porterà a un lungo e clamoroso processo contro Tassi. Non è chiaro il motivo per cui Orazio, il padre di Artemisia, aspettò quasi un anno prima di sporgere denuncia: se per questioni economiche o a causa di un ipotetico furto di un quadro da parte di Agostino Tassi, per cui Orazio cercava vendetta, o se per proteggere Artemisia sperando in un matrimonio riparatore.

Durante i sette lunghi mesi del processo, iniziato a marzo 1612, Artemisia ha dovuto subire svariate violenze pur di provare la sua innocenza. Infatti, all’epoca lo stupro non era considerato un crimine contro la donna, ma contro l’onore della famiglia, del padre in particolare, e la parola di una donna non aveva la stessa attendibilità di quella di un uomo. Se poi la donna non era considerata casta al momento dei fatti, lo stupro non era punibile. Per questo motivo Artemisia dovette sottoporsi a delle visite ginecologiche che ne attestassero la verginità prima del fatto, ma le levatrici responsabili delle visite testimoniarono contro di lei.

Persino Tuzia testimoniò contro di lei.

In sede di processo Artemisia subì la cosiddetta “tortura della Sibilla” volta a verificare la veridicità delle sue affermazioni, e a far valere la sua testimonianza al pari di quella di Tassi. La procedura poteva essere fatale per la carriera di una pittrice.

Nel periodo del processo, Artemisia dipinge una sua prima versione di “Giuditta che decapita Oloferne”, uno dei suoi quadri più famosi. La Giuditta di Artemisia non è impassibile e distaccata come in molti altri quadri della storia dell’arte che rappresentano la stessa scena, ma è coinvolta personalmente, è furente di rabbia. I tratti di Oloferne secondo alcuni critici sarebbero ispirati a Tassi, e il dipinto è considerato una sorta di vendetta simbolica nei suoi confronti.

Nonostante le maldicenze su di lei, i tradimenti, le sofferenze e l’umiliazione subiti, Artemisia vince il processo. Si può dire che vince e perde allo stesso tempo, in quanto Tassi non sconta la sua pena ma sceglie l’esilio da Roma, città dalla quale anche Artemisia è costretta a fuggire a causa dell’opinione pubblica, più propensa a perdonare uno stupratore che la sua vittima, che le avrebbe reso impossibile lavorare.

Per restituire dignità alla figlia, Orazio combina un matrimonio riparatore con un suo assistente di bottega, Pierantonio Stiattesi, che accetta di sposarla per liberarsi di alcuni debiti.

Artemisia e Pierantonio si sposano due giorni dopo la sentenza, il 29 novembre 1612, e partono per Firenze. Dal matrimonio avranno 4 figli, solo una figlia, Prudenzia, raggiungerà l’età adulta.

Per ricominciare una nuova vita a Firenze, Artemisia può contare solo su se stessa e sul suo talento. Si libera del suo cognome, adottando un altro cognome di famiglia, ovvero Lomi, e si istruisce in modo da saper trattare con i committenti, leggere e scrivere, sostenere la corrispondenza, per gestire in modo autonomo i suoi incarichi di bottega. A Firenze entra nella corte del Granduca Cosimo de’ Medici e questa opportunità le porta lavoro e fama.

La continua lotta per l’affermazione, per essere riconosciuta, ascoltata, continua a portare i suoi frutti quando, nel 1616, è la prima donna ad essere ammessa all’Accademia di Disegno di Firenze, accanto a illustri nomi della pittura e delle scienze. In Accademia affina ancora di più la sua tecnica diventando maestra del nudo femminile.

Mostrerò alla Vostra Illustre Signoria ciò che una donna può fare. […] Le opere parleranno da sole

Artemisia Gentileschi

Viaggerà molto, nel 1621 farà ritorno a Roma come capofamiglia, allontanandosi dal marito insieme a sua figlia, poi sarà a Venezia, a Napoli, a Londra.

Artemisia riesce a trasformare tutta la sofferenza subita in coraggio, e in lavoro, e le eroine dei suoi quadri non sono icone lontane idealizzate, ma donne, donne reali, donne forti che non si piegano, come lei. Da donna, dipingerà le donne in modo unico, non convenzionale, perché autobiografico, intriso del carattere della pittrice. Dipinge il nudo femminile con tecnica e virtuosismo unici, proporzioni perfette, mai volgare o eccessivamente semplificato.

Tra le protagoniste dei suoi quadri, tratte da vicende storiche o bibliche, figurano Giuditta, Cleopatra, Lucrezia, Susanna, spesso immortalate nel momento esatto dell’azione, attive, determinate, ma allo stesso tempo sensuali.

Il suo talento e la sua determinazione le portano ammirazione, non più disprezzo, tanto che lei verrà riconosciuta e si firmerà solo come Artemisia, senza cognome, indipendente.

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