
Disinformazione e Psicologia: Cosa ci Dicono gli Studi Recenti
- Settembre 08, 2025
- di
- Ingrida Kirkilaite
Viviamo in un mondo sempre più interconnesso, dove ogni notizia, vera o falsa, può raggiungere milioni di persone in pochi secondi. Ma quanto siamo consapevoli dei meccanismi che rendono possibile la diffusione di disinformazione, e quale ruolo gioca la psicologia in tutto questo?
Ho avuto modo di leggere tre documenti pubblicati dalla American Psychological Association (APA), che approfondiscono in modo sistematico la natura psicologica della disinformazione. Questi testi offrono una lente scientifica potente per interpretare questo fenomeno globale.
L’Infodemia: un nuovo rischio sociale. Secondo l’APA, viviamo una vera e propria “infodemia”. Non si tratta solo di fake news, ma di un ecosistema informativo distorto, in cui emozioni, ideologie e algoritmi agiscono insieme per polarizzare le opinioni e minare la fiducia nelle istituzioni.
La disinformazione, infatti, è legata a effetti sociali concreti: genera sfiducia nella scienza, nella medicina e amplifica i conflitti tra gruppi. È un meccanismo che sfrutta leve psicologiche, come il bisogno di appartenenza, la paura, e i bias cognitivi.
Perché crediamo alla disinformazione? Nel documento “Using Psychological Science to Understand and Fight Health Misinformation” vengono proposte le risposte su più livelli:
Motivazioni individuali: tendiamo a credere a ciò che conferma le nostre opinioni pregresse (bias di conferma) e ci fa sentire parte di un gruppo.
Meccanismi cognitivi: l’uso di scorciatoie mentali (euristiche) ci porta a giudicare velocemente senza valutare la veridicità delle informazioni.
Fattori emotivi: contenuti che evocano paura o indignazione hanno maggior probabilità di essere condivisi.
Contesto sociale e politico: ambienti polarizzati, dove c’è sfiducia nelle autorità, facilitano la diffusione di disinformazione.
La diffusione della disinformazione non è casuale: segue logiche psicologiche precise. La ripetizione di un’informazione, la presenza di “influencer” o fonti percepite come affidabili, e l’effetto “echo chamber” aumentano la probabilità che una fake news venga interiorizzata come vera. I contenuti visivi e narrativi, per esempio i meme o le testimonianze emotive – hanno un impatto persuasivo più forte rispetto ai dati puramente logici.
L’APA propone interventi concreti come: promuovere l’alfabetizzazione mediatica e scientifica fin dalla scuola, sviluppare strategie psicologiche preventive come il “prebunking” per rafforzare le difese mentali contro le fake news, sostenere la ricerca interdisciplinare sul comportamento digitale e formare operatori della salute e della comunicazione per affrontare la disinformazione in modo efficace.
La disinformazione non è un problema di altri, ma una responsabilità collettiva. Non basta il fact-checking: serve educazione, spirito critico e una comunicazione chiara e consapevole. La psicologia ci mostra che le fake news si radicano nei nostri pensieri, emozioni e nei contesti sociali.
Ogni nostra scelta, un click, un commento, una condivisione – può alimentare la confusione o promuovere chiarezza. Come studenti di ogni ambito possiamo fare la differenza, portando conoscenza e dialogo nei nostri spazi quotidiani.
Spesso restiamo passivi, aspettando che siano altri ad agire. Ma è proprio questo il problema: l’effetto spettatore. Se tutti aspettano, nessuno interviene. Serve il coraggio di rompere il silenzio. In un mondo dove le bugie corrono veloci, dire la verità è un atto di responsabilità.