
Non siamo Pavlov: educare non è premiare il capriccio
- Agosto 18, 2025
- di
- Monica A. M. Guidi
Educare un bambino con fragilità non è mai solo questione di fare il bene, ma di fare bene il bene.
Non è difficile capire lui, lei, loro. Il nodo, spesso, è far capire gli altri.
I coetanei. Gli adulti. I vicini di casa. I genitori degli altri. Gli insegnanti meno formati. I passanti al parco.
Il mio ostacolo più grande non è accogliere il limite, ma educare al limite: quello del contesto, del rispetto reciproco, della crescita condivisa.
Perché se un bambino con difficoltà viene trattato come se fosse “speciale” al punto da essere al di sopra delle regole, si sta facendo un danno. A lui, e a tutti.
No, non siamo dei Pavlov mancati. Non stiamo addestrando.
Non basta un premio ogni volta che un comportamento è socialmente accettabile.
E no, neanche uno sguardo di compassione ogni volta che il comportamento non lo è.
Pavlov, per chi non lo ricordasse, è quello degli esperimenti con i cani che salivavano sentendo una campanella.
Funzionava perché era un cane.
Ma noi lavoriamo con persone.
E ogni persona, fragilità comprese, merita dignità educativa, non condizionamento.
Se rinforziamo un comportamento disfunzionale (come il capriccio, l’opposizione continua o l’evitamento) solo perché “poverino, lui è così”, non lo stiamo aiutando.
Stiamo dicendo al suo cervello: questo funziona, continua così.
Lo dice anche Skinner, altro nome celebre della psicologia comportamentale: il rinforzo positivo può aumentare la probabilità di un comportamento. Ma se applichiamo queste teorie come fossero leggi assolute, rischiamo di “educare al capriccio” invece che all’autonomia.
La differenza tra comprensione e giustificazione
Comprendere un bambino significa leggere il bisogno dietro al comportamento.
Giustificare tutto ciò che fa significa invece negare la possibilità di crescere.
Un esempio?
Se un bambino non verbale lancia un oggetto per comunicare frustrazione, è giusto capire perché lo fa.
Ma non possiamo fargli credere che lanciare oggetti sia la via giusta per farsi capire.
Educare è cercare una strada alternativa: un gesto, una tavola CAA, un’immagine, una parola nuova. È lavoro, è fatica. Ma è cura autentica.
Educare è creare ponti, non zone franche
Includere non è isolare in una bolla protetta.
Non è nemmeno trasformare le fragilità in giustificazioni permanenti.
L’obiettivo non è “fare sentire tutti uguali”, ma dare a ciascuno il diritto di essere se stesso, senza rinunciare al contatto con gli altri.
Senza rinunciare alle regole, ai no, ai sì, agli “aspetta un attimo”, agli “ora tocca a lui”.
Perché anche questi fanno parte della vita.
Per chi vuole approfondire:
- Pavlov I.P. (1927), The Conditioned Reflex, Oxford University Press
- Skinner B.F. (1953), Science and Human Behavior, Macmillan
- Baer D.M., Wolf M.M., Risley T.R. (1968), Some current dimensions of applied behavior analysis, Journal of Applied Behavior Analysis, 1(1), 91–97
- Siegel D.J. (2012), La mente relazionale, Raffaello Cortina
- Winnicott D.W. (1965), Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Editore