Scrolling: il lato oscuro dell’intrattenimento

Scrolling: il lato oscuro dell’intrattenimento

Il concetto di tecnologia, come quello di cultura, è di difficile definizione. In senso lato, potrebbe essere inteso come l’applicazione di strumenti tecnici alla soluzione di problemi pratici. È fuor di dubbio che moltissimi “problemi pratici” dell’uomo in un ipotetico stato di natura siano stati affrontati (e in molti casi sostanzialmente risolti) grazie all’avanzamento tecnologico che ci ha accompagnato nel corso dei secoli: dalla ruota agli anticorpi monoclonali.

Inutile nascondere, tuttavia, che da ogni tecnologia e dalle relative applicazioni nascano sempre nuove sfide e nuove questioni – alcune problematiche – spesso imprevedibili quando quella stessa tecnologia si trova agli albori.

Ad esempio, se è vero che la motorizzazione delle società ha abbattuto distanze impensabili fino a un secolo fa, estendendo i nostri orizzonti geografici e con essi quelli culturali, e se è vero che l’industrializzazione ha reso accessibili a tutti prodotti di base che un tempo sarebbero stati considerati di lusso migliorando drasticamente la qualità di vita, è anche vero che le crisi ambientali che oggi siamo chiamati a gestire, dal riscaldamento globale alla distruzione di interi ecosistemi, sono in buona parte conseguenza di quegli stessi sviluppi tecnologici.

Allo stesso tempo, se è vero che i progressi della tecnica applicata alla medicina, sia in termini di diagnostica che di terapia, hanno cronicizzato malattie un tempo considerate incurabili e allungato sempre più la vita media, va considerata d’altro canto l’aumentata complessità clinica dei pazienti, che pone nuove sfide ai medici.

In sostanza, la tecnologia cambia alla radice i problemi che affronta, talvolta ribaltandoli, mostrando così il lato opposto della medaglia: andrebbe per questo sempre inquadrata nel contesto storico e sociale in cui si applica, considerandone l’impatto su più livelli. 

Nello specifico, le tecnologie digitali hanno nettamente semplificato in rapidissimo tempo la vita di tutti noi, aprendo tuttavia le porte a nuove, inaspettate problematiche. La repentina accelerazione dei cambiamenti sociali alimentata dal progresso digitale sta rimodellando non solo le nostre abitudini quotidiane, ma la nostra stessa antropologia.

L’evoluzione dei rapporti tra uomo e tecnologia ha preso una direzione ambigua, e sempre più ambiguo è il rapporto tra strumento e operatore, che va estrinsecandosi in una relazione biunivoca dove l’uomo è allo stesso tempo soggetto e oggetto del concentrato di tecnologia e saperi che ha tra le mani in ogni istante della giornata.

Come evitare che sia la tecnologia digitale a usare noi?

Nel profondo di chi appartiene alla mia generazione (sono nato nel 1995), e che quindi ha avuto modo, seppur per un breve periodo della propria esistenza, di essere testimone di un mondo pre-digitale, una fioca, ineffabile voce suggerisce che qualcosa è irreversibilmente cambiato rispetto al ricordo idilliaco e sfumato che definiamo infanzia.

Tale sensazione non è semplicemente il distillato dell’idealizzazione bugiarda della fanciullezza, ma si può forse ricondurre a minimi criteri di oggettività. Il “pomeriggio troppo azzurro e lungo” creato da Paolo Conte e reso celebre da Celentano è una pittoresca descrizione di quel passato indefinito di fanciullino – in quel caso annoiato dalla dilatazione del tempo estivo – la cui fantasia pura e svestita da distrazioni induceva la mente a ideare nuovi mondi, fino a portare “l’Africa in giardino”.

Le neuroscienze evolutive ci insegnano che questo stato mentale quasi meditativo, scaturito semplicemente dal non avere niente da fare, è fondamentale per lo sviluppo creativo della persona, per renderla critica e capace di interpretare, talvolta anche con vezzo artistico, l’universo attorno a sé, colorandolo di significato. Questa capacità si affievolisce con l’età adulta senza però mai spegnersi del tutto, e ci aiuta vivere la realtà senza subirla.

Al contrario, la passivizzazione delle nostre esperienze digitali, l’adattamento a scegliere sempre tra le opzioni date e l’incapacità di proporne di personali, ovvero l’arrendevolezza nei confronti dell’algoritmo, impigriscono la voglia di diversità e la spinta della curiosità all’attiva ed autentica ricerca di ciò che è a noi congeniale o per noi profondamente stimolante.

Questa tendenza a scegliere in maniera opzionale e parcellizzata si riflette dagli smartphone alla vita reale, e anzi il confine tra le due dimensioni – virtuale e concreta – ha sempre meno significato.

Si tratta dell’effetto principale della dipendenza del XXI secolo, intuita alla fine degli anni ‘90 dal geniale David Foster Wallace nel celebre romanzo “Infinite Jest”: la dipendenza dall’intrattenimento passivo e continuo, quasi somministrato.

In questa forma di intrattenimento, svuotato di ogni velleità artistica, non è richiesto al pubblico (o all’utente) alcuno sforzo mentale né alcuna immedesimazione. Lo spettatore è estraniato completamente dall’oggetto della rappresentazione e, quasi in uno stato di trance, è intrattenuto soprattutto dal divenire delle rappresentazioni.

Mi riferisco a ciò che in gergo è detto “scrolling”: trattasi dello scorrimento attivo (e spesso compulsivo) di testo, immagini o altri dati sullo schermo di un computer o di altro dispositivo digitale. L’utente perde talora il senso del tempo e il contatto con la realtà circostante, non per l’esperienza immersivo-estatica che si potrebbe avere dinnanzi ad un capolavoro (come nella condizione nota come “sindrome di Stendhal”) ma per lo smarrimento a fronte del divenire di ripetute rappresentazioni vuote.

Lo scrolling, perpetuo rumoroso input per il sistema nervoso centrale, rappresenta il moderno guinzaglio della mente e della fantasia, simboleggia la distrazione dall’iniziativa collettiva e l’allontanamento dalle interazioni sociali come le abbiamo conosciute fino a pochi anni fa.

Ogni immagine, post, video breve che viene passato in rassegna ha a disposizione pochi secondi, dopodiché il cervello richiede un’altra volta quel debole ma essenziale stimolo fornito dal successivo elemento di finta novità, che subito invecchia: con un colpo di dito siamo pronti a scartare il prossimo pacco, e la soglia di attenzione (e quindi la capacità di approfondimento) si abbassa sempre di più.

Questa passività è la vera chiave della dipendenza dalle tecnologie digitali, e trova perfettamente senso di esistere e di insidiarsi, se ci sforziamo di considerare la dipendenza nella propria neurobiologia. I modelli neurochimici della dipendenza, infatti, si concretizzano attraverso un sistema di risposta alla gratificazione, la quale si avvale della dopamina come neurotrasmettitore. La gratificazione spinge a ricercare con sempre maggiore frequenza (e a dosi sempre maggiori) il fattore che la scatena, che si tratti di sostanze d’abuso, palestra, shopping compulsivo, gioco d’azzardo, utilizzo di social network.

Come interrompere il meccanismo della dipendenza? Quando si entra effettivamente in un circolo vizioso che mette a repentaglio la propria qualità di vita e mina i rapporti sociali è d’uopo cercare aiuto professionale rivolgendosi a specialisti della salute mentale. In casi non così eclatanti, a mio avviso la disintossicazione da questa continua stimolazione passa per la ricerca di senso, autoconsapevolezza e progettualità, magari a contatto con la natura, allontanandosi dalle fonti di distrazione.

Rifiutare la tecnologia e chiudersi in un’ingiallita analogica nostalgia non è la strategia migliore: occorre vivere il proprio tempo e apprezzare le incredibili opportunità che il digitale ci offre, imparando a padroneggiarle. Colpevolizzare la tecnologia digitale di per sé sarebbe come imputare il delitto alla pistola invece che all’assassino.

Sta ai cittadini, e quindi alla politica, occuparsi delle complesse problematiche legate alla sempre più invadente digitalizzazione delle nostre vite, per implementare strumenti di educazione e sensibilizzazione rivolti soprattutto ai più giovani, dei quali non possiamo permetterci di perdere capacità di ideazione, senso critico e fantasia.

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