Il mio canto (è) libero: oggi e sempre
- Aprile 11, 2023
- di
- Roberto Nicolucci
Renato Zero, uomo di musica che di musica capisce come pochi, ha detto più o meno che ogni volta che usciva un album di Lucio Battisti cambiavano i rapporti di distanza. Tipo il campione di salto in alto che s’incarica dopo ogni prova di fissare di nuovo l’asticella. Dopodiché puoi decidere di far meglio, passare sotto o rassegnarti e lasciare perdere. Insomma: non uno che ti lasciasse indifferente. Battisti ci ha lasciati trent’anni fa ma, come i classici della nostra storia, non ha smesso di dirci quanto ha da dirci. E soprattutto è artista transgenerazionale.
Nell’edizione di Sanremo 2022, nella serata delle cover, che per ovvie ragioni attrae una platea più vasta, un duo di promesse già in parte mantenute, I Coma Cose, si è cimentato con un pezzo poco meno che sacro: “Il mio canto libero” che quel gran genio di Giulio Rapetti, in arte Mogol, cucì addosso a Lucio nel 1972. Ma di cover alla fine non si è trattato. Ossia: non si è preso un pezzo e lo si è reinventato trasformandolo.
I due, Fausto Lama e California (accompagnati quasi sulle spalle dal compianto Alberto Radius alla chitarra) lo hanno riproposto più o meno uguale, in un esercizio di grande umiltà non dissimile da quello che facevano gli amanuensi quando ricopiavano un testo antico, che fossero le Scritture o un classico antico. Ricordate, veleno sulle pagine a parte, il “Nome della rosa” di Eco o il film che ne trasse il francese Annaud? A riprova che il canzoniere di Battisti e Mogol lo hanno passato, come un testimone, i ventenni di allora (oggi settantenni) ai ventenni di oggi, che ai tempi di Battisti ancora non erano nati.
Il “Mio canto libero” è uno dei vertici della musica del dopoguerra. Chiunque ne ricorda l’incipit alla chitarra acustica e i primi versi: in un mondo che non ci vuole più, il mio canto libero sei tu… Alla fine, un invito alla riscoperta della purezza e la verità di un rapporto umano. E tutto questo al netto di polemiche pretestuose che ne accompagneranno le fama e ogni tanto, sciaguratamente, trapelano (non varrebbe neanche la pena parlarne: ma come non arrossire del fatto che Mogol e Battisti fossero accusati di simpatie per il fascismo dietro una lettura forzata del testo o perché, nella “Collina dei ciliegi”, si parla di “boschi di braccia tese”? Quindi, se tanto mi dà tanto, “Pugni chiusi” dei Ribelli, anno 1967, con uno straordinario Stratos alla voce, sarebbe un’apologia del comunismo?). In ogni caso, il mio canto, sempre e per sempre libero, è un pezzo che non ci si stancherebbe di ascoltare e cantare. Dove e quando si voglia. Intonati o stonati. A braccia tese o meno. Ma se ci si accompagni con la chitarra il problema non si pone.