Mente digitale, ausilio o deriva?

Mente digitale, ausilio o deriva?

A chi non è mai capitato, ultimamente, di aprire la homepage di alcuni browser, digitare qualche parola nella stringa di ricerca, e trovarsi, ben evidente, una risposta automatica generata tramite l’intelligenza artificiale (IA l’acronimo italiano), uno strumento informatico che ambisce, o almeno ci prova, a competere con l’intelletto umano.

Sebbene non si tratti di un’invenzione del XXI secolo (l’AI, in inglese, viene presentata, per la prima volta, nel 1956), l’intelligenza artificiale è uno degli strumenti più utilizzati dai giovani, e non solo; ciò è possibile grazie a software che permettono l’utilizzo dell’IA su normali siti web, che la rendono facilmente accessibile all’utente non specializzato, il quale può ritrovare in essa un interlocutore, ad un primo impatto, apparentemente onnisciente.

L’apertura verso un utilizzo di massa dell’IA rappresenta, probabilmente, l’innovazione tecnologica più incredibile vista finora; un qualcosa che, i Millenials del secolo scorso, potevano solamente sognare o immaginare, con l’aiuto del cinema di fantascienza.

Una preoccupazione diffusa è certamente l’impatto sociale che questi strumenti avranno sulle generazioni attuali e future, specialmente se sfuggiranno ai limiti dell’originale ruolo di ausilio tecnico, per il quale sono nati.

Sempre più spesso, capita di aver notizia di adolescenti che lasciano, all’IA, il compito di svolgere le principali attività cognitive della loro quotidianità: non tutto è negativo, intendiamoci, ma si rischia di perdere il contatto con la realtà fisica e, soprattutto, con la propria creatività e abilità critico-razionale.

L’intelligenza artificiale è il sintomo più evidente di un mondo in rapida trasformazione, che trasferisce l’esperienza sensibile sul piano digitale, ma che rischia di smarrire la capacità di esistere, nell’unicità dell’essere umano. La cogitatio cartesiana, il ruolo del pensiero come essenza dell’esistere, su cui si fonda la filosofia moderna, rischia di precipitare nello schema rigido di una mente artificiale, capace di elaborare informazioni solo secondo algoritmi. Dove l’intelletto umano diventa creativo, dove il problema diventa stimolo per il superamento dello stesso, l’IA si ferma, manca di elementi sufficienti a cui attingere.

Ecco che allora, se vogliamo riprodurre un soggetto o un paesaggio, mentre la pittura o la fotografia richiedono, giocoforza, un impegno creativo, è sufficiente chiedere all’IA di farlo per noi, senza fatica, ma senza passione.

Ancora. È diffusa, tra molti giovani studenti, l’abitudine a svolgere i compiti a casa attingendo le informazioni necessarie grazie all’IA; salvo poi non riuscire a ottenere il medesimo risultato nelle verifiche in classe, con un conseguente scoraggiamento che, spesso, si conclude con un abbandono precoce degli studi. Un vecchio trucco, per conciliare svago e dovere, era quello di svolgere i compiti copiando direttamente dal libro, per poi sfruttare i tanto famosi (quanto, ormai, anacronistici) bigliettini nelle verifiche in classe.

Riflettiamoci un attimo: l’attività in questione richiede comunque uno sforzo cognitivo, la preparazione dei bigliettini necessita una fase di ricerca e la consapevolezza dei vari collegamenti tra gli argomenti, visto il pochissimo tempo a disposizione per sfruttare le informazioni “tascabili”. Insomma, anche per copiare il libro va aperto, quantomeno letto, e il cervello messo in funzione; per non parlare della solidarietà di gruppo che unisce la classe durante una prova di verifica.

Con l’IA tutto questo non accade più: ognuno è autonomo per sé stesso, basta trascrivere la frase pari pari sul nostro smartphone per ottenere la risposta, ovviamente la stessa che otterranno altre migliaia di individui in tutto il mondo, nelle più svariate lingue.

E spesso non si fa nemmeno la fatica di rielaborarla, la si ricopia così com’è, magari con refusi grammaticali, che denotano, oltre a scarsa attenzione, anche una ormai insufficiente padronanza della madrelingua.

Viene da chiedersi se ne valga veramente la pena. L’abitudine alla comodità, tipica della società contemporanea, ci sta veramente portando verso una rinuncia alla libertà di sbagliare, lasciandoci rimpiazzare da una macchina? Nella seconda metà del secolo scorso, la Teoria Computazionale della mente, di chiara matrice cognitivista, sull’onda del boom tecnologico di quegli anni, paragonò, metaforicamente, il funzionamento del cervello a quello del computer1; mai si è però immaginato, almeno concretamente, di rimpiazzare i processi mentali umani. È allarmante, tuttavia, vedere come si sia smarrita la capacità (e la voglia) di agire per un risultato che possiamo definire nostro, ottenuto con pazienza e fatica.

S’è ridotto lo spazio per la riflessione, per i tentativi che potrebbero non portare a nulla, il risultato dev’essere certo ancor prima di intraprendere l’azione.

Non voglio però, intendiamoci, apparire un detrattore dell’intelligenza artificiale in sé; al contrario. tutti noi, bene o male, ne facciamo largo uso, ed è impensabile, oggigiorno, immaginare di non servircene.
Sarebbe sufficiente ricordarsi che, la tecnologia digitale, rappresenta un ausilio, un aiuto tecnico, nella nostra vita quotidiana, e non un alter ego di noi stessi.

1_ nota bibliografica: J. J. Smart, Paul Thagard, a cura di G. Galloni, Identità e rappresentazione. Scienza cognitiva e teorie della mente, Volume 1 di Scienze umane, Stamen – Editoria Scientifi, 2006, pag. 109.

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