Un racconto, se possibile
- Dicembre 09, 2024
- di
- Sonia Caruso
Osservo e ascolto intorno a noi e mi chiedo: “Si può raccontare la disabilità?”. Ammetto la mia più totale incapacità nel fornire una risposta. Mi posso affidare, almeno, ad un tentativo?
Eppure se ne parla, si ragiona, si ipotizzano cure, aiuti.
La disabilità deve preoccupare solamente chi direttamente o indirettamente ne è coinvolto?
Mi avvicino ad un discernimento, affidandomi ad un ricordo, che ha osservato e che poi ha tentato, con tutta l’umiltà possibile (e mi chiedo se già specificare l’umiltà stessa, non sia un atto, invece, di umana presunzione) di leggere, di studiare, di approfondire.
Penso alla reminiscenza come ad un qualcosa, che, pur nella sua naturale archeologia, probabilmente, non è mai reificata del tutto, cioè mai completamente oggettivata, forse perché la memoria si plasma all’interno delle geografie del Tempo che viviamo, perché come ci ricorda lo sguardo pedagogico della letteratura di Charles Dickens, l’uomo è in continuo movimento, siamo esseri la cui interiorità muta pur rimanendo ancorati a quel “Carattere”, a quel “Daimon” che Eraclito aveva già intuito.
Immagino il ricordo, che, con sensibile confidenza, si insinua tra le specificità all’interno di un’unità.
È anche la nostalgia di una lettura, che a sua volta ricorda e si unisce a quello di una bambina, Sarah. Lascerei la parola al Ricordo stesso…
Una serena lettura a ciascuno di voi.
Partirei, prima, proprio dalla visione di Sarah. Ricordo, io che sono memoria e che quindi tento, così, di riflettere su me stessa, la piccola Sarah con il sorriso lieve e ilare allo stesso tempo; un golfino blu le si posa sul suo piccolo e minuto busto, quel maglioncino a Sarah piace particolarmente, è ornato da un candido colletto, che appena si scosta al refolo del vento di primavera.
Questa è una piccola forma di movimento nel quale Sarah si immedesima, è lento come lei, come le sue braccia che non sempre riesce ad alzare agevolmente, e che, spesso, non riescono a coordinarsi con il rigido scatto delle sue gambe.
Le giornate cominciano a donare manciate di tiepidi raggi, che sfiorano i nostri passi sul suolo della terra, mentre, mano a mano, si vive un po’ di più all’aria aperta, luogo vitale per chiunque di noi.
Ilaria osserva, sorride. Le sue parole non sono nitide, non sono scandite con chiarezza: occorre, inizialmente, imparare il suo linguaggio; più Ilaria parla e più si allena, ma è pur vero che si stanca facilmente.
Ilaria, in questo modo, ha imparato a esprimere concetti sintetici, una melodia che somiglia alle note di una musica jazz, all’inizio apparentemente slegate, imprevedibili, ma poi tutto si mette a posto.
Ecco, Ilaria ha appreso il dono di metter ordine tra le cose, tra le parole. Esprime il suono di un concetto, anche quando questo è un capriccio di bimba.
E’ ora di tornare a casa, ma Ilaria sostiene di stare troppo bene all’ombra della grande magnolia fiorita di rosa e da lì non vuol proprio spostarsi.
Il verde cromo e brillante della primavera coinvolge gli animi di tutti e la Bellezza, chissà, alle volte distrae le volontà di ciascuno.
Ilaria comincia ad urlare. Il grido è stridulo e anche sua sorella, Elisa, di poco più grande, non sembra dotata delle più buone intenzioni di dar retta agli inviti degli adulti, lì, con loro.
Del resto Elisa è complice e solidale con Sarah, i loro sguardi, verdi come la stessa primavera, si intendono a meraviglia.
Elisa, un giorno, ha detto, “Del resto non posso essere perfetta, io che sono quella normale, altrimenti non sarebbe un rapporto equo. Se capricci devono essere, che siano fatti insieme, siamo sorelle!”
Sorelle piccole, all’epoca di quattro e sei anni, che poi, per fortuna dei genitori, sono cresciute con toni e modi più mansueti.
Ma quel giorno, colmo di raggi color miele, ai giardini pubblici, la mansuetudine di Sarah ed Elisa non era pervenuta.
Il grido acuto di Sarah ha attirato l’attenzione delle altre persone e una nonna ha cercato di invitare i familiari delle due sorelline a non disturbare più di tanto perché si sarebbe recato disagio ai condomini del palazzo sopra al giardino.
Scusandosi per lo scompiglio creato, i genitori e le due bimbe hanno subito cercato, a fatica, il giusto modo e il più sano compromesso per non infastidire le persone accanto e per tornare serenamente a casa.
Questa visione mi ha fatto venire in mente la commovente lettura del testo “A sua immagine? Figli di Dio con disabilità” a cura di Alberto Fontana e Giovanni Merlo.
Il libro contiene la preziosissima traduzione dell’opera “Us” not “Them”. Disability and Catholic Theology and Social Teaching di Justine Glyn SJ.
Non intendo scivolare nel terreno spinosissimo della spiegazione, primo perché non è questa le sede opportuna e motivo principale, decisamente a monte, perché come posso io, che sono un ricordo, poter spiegare qualcosa? Potrei, forse, cimentarmi, al netto delle mie capacità e dei miei limiti in una forma di narrazione.
In queste pagine, i miei pensieri, ricordano lo scorrere di lacrime di partecipazione, di quesiti costanti, di gioia umana e di altrettanta umana inquietudine.
Cosa significa relazionarsi con il prossimo? Può voler dire specchiarsi, rispecchiarsi, incontrarsi? E con uno sguardo che tende ad un ragionamento teologico, potrebbe questo incontro con l’altro voler dire anche incontrare quel senso di Infinito, che diviene Realtà? Possiamo, noi umani, pretendere di confrontarci con Dio?
La teologia, alla luce delle sue chiavi interpretative, come pone la disabilità? Come è stata posta nel corso della Storia?
Io, Ricordo, non credo sia opportuno osservare con espressione giudicante errori del passato, in fondo l’uomo, in ciascun’epoca, è figlio dei suoi tempi. Preferisco immaginare “ Il mistero di Dio in un’apertura radicale”. Faccio mia un’espressione di Karl Rahner.
Apertura che lascia intendere la stessa volontà di Dio, quella di incontrare noi, tutti, anche nella traccia della disabilità segnata sul corpo e sullo spirito. Condizione, quella della disabilità, che trova ancora oggi non semplice definizione: non è
propriamente malattia, probabilmente è più una situazione, non prevede una guarigione, come spesso si auspica per la malattia, ma, comunque, necessita di cura. L’incontro di Dio può intendersi nella “Grazia che si fonda sulla natura? Su tutta la natura?”.
Si allarga l’orizzonte verso un pensiero intero, complesso, eterogeneo. Questo Tutto necessita di scomposizione oppure no?
Magari, una semplificazione per aiutare noi piccoli umani a comprendere le cure, quelle del corpo e quelle dello spirito. Mai nettamente separate tra di loro.
Il pensiero proposto dalle pagine indicate e che la mia memoria mi aiuta a ricordare offre un riferimento teologico e mi chiedo se può volgersi anche verso uno sguardo laico.
Non vorrei tradire la promessa compiuta precedentemente, sulla mia impossibilità e incapacità di spiegare, la mia vorrebbe solamente essere un’idea.
Ebbene, penso che il senso teologico, umanamente teologico, che si legge nelle pagine del testo citato, probabilmente, possa essere inteso anche attraverso una laica visione, in virtù di quello che intendiamo come relazione, interrelazione.
Potrebbe essere un punto di partenza per poter porre nuove definizioni, nuovi punti di partenza?
Per poter immaginare non solo un mondo inclusivo, che, per sua estensione, prevede un perimetro, un confine; per lasciare, invece, aperta sempre una via d’accesso, un varco, una porta perennemente aperta.