Oggi i film ci dicono troppo. La perdita dell’elemento “slegato” nel cinema contemporaneo

Oggi i film ci dicono troppo. La perdita dell’elemento “slegato” nel cinema contemporaneo

Una proposta di riflessione sull’importanza dell’elemento distrattore, apparentemente superfluo, come metafora dell’arte e della condizione umana.

In Blow up, celebre film di Michelangelo Antonioni del 1966, il protagonista ad un certo punto della storia entra in un negozio di antiquariato e acquista un’elica gigante, che poi a fatica porta a casa. L’uomo è evidentemente un collezionista, un appassionato di design, oppure più semplicemente un tipo dai gusti stravaganti. Dal canto suo la storia è un noir, peraltro dal finale simbolicamente aperto. Come si inserisce quindi questa breve scena nella trama del giallo? Ci aiuta a sviluppare un’ipotesi? Fornisce indizi?

Ho scelto di introdurre l’argomento con un esempio risalente agli anni ’60, non a caso. La mia constatazione è infatti la presenza, nei film dei decenni scorsi, di un elemento oggi piuttosto in disuso, ovvero scene di pausa della trama, una sorta di corrispettivo di ciò che viene definito pausa dell’occhio nelle arti figurative classiche. In realtà la scena sopra descritta, apparentemente slegata, è sicuramente caratterizzante, poiché contribuisce a dare un taglio al ritratto del protagonista, imprevedibile, spregiudicato, calato nella modernità ma con un piglio spendaccione della vita e dell’esperienza. L’acquisto dell’elica ha dunque valenza descrittiva, eppure noi tutti nel seguire la trama ci chiediamo se serva a capire qualcosa in più sul misterioso delitto: ci interroghiamo cioè sulla sua funzione nello sviluppo o scioglimento dei fatti. Certamente, oggi magari tendiamo a farlo più di quanto dovremmo, per un fenomeno secondo me appartenente ai nostri giorni che di seguito cercherò di riassumere.

Nel cinema fino agli anni ’80 permane la presenza frequente di scene senza sviluppo, apparentemente fini a se stesse o solo caratterizzanti. Le ritroviamo facilmente in Polański, come nel caso del cortissimo taglio di capelli in Rosemary’s baby, dopo il quale lo spettatore si prepara a presagire una svolta, qualcosa di strano o divergente, o comunque di correlato all’episodio, ma che poi in una visione d’insieme non innesca di per sé conseguenze, anzi sembrerebbe quasi un “distrattore”. Queste scene-parentesi non si ritrovano invece in particolari autori architetti di perfezione, come Kubrick, dove tutto ha una sua precisa motivazione nell’equilibrio interno delle parti. Ecco, questi elementi narrativi di cui parlo e che definisco “slegati”, nei film dei nostri giorni sono quasi assenti. Sembra anzi che i registi siano per lo più ossessionati dalla ricerca della razionalità, nel tentativo di fornire elementi chiari ed esplicativi, anche quando la trama si propone come massimamente misteriosa: vedi l’esempio di Il mondo dietro di te,  recentissimo lavoro di Sam Esmail, dove l’impossibilità di comprendere gli eventi catastrofici viene comunque ipotizzata e spiegata nella maniera più razionale, seppur  sottoforma di agnostiche domande, dai protagonisti stessi, che elencano tutte le soluzioni possibili fornendoci un ventaglio di proposte su un piatto d’argento.

Secondo me c’è oggi una grande assenza di “slegato”, di suggestione atemporale. E questa carenza non riguarda la sfera della pura estetica formale, ma l’apparato valoriale del messaggio artistico. Se il cinema è per definizione settima arte, e dunque arte, dovrebbe pertanto assumersi l’incarico di sussurrare di più e di spiegare di meno, poiché la funzione dell’arte è propriamente suggerire, aprire varchi. Nel cinema contemporaneo prevale invece una volontà di far quadrare il cerchio. Le stesse serie TV, che oltretutto oggi sono spesso prodotti di grande qualità, come Breaking bad o Better Call Saul, sono costruite come necessarie in tutte le loro parti, quasi macchine con ingranaggi di precisione. Togli un pezzo e perdi una chiave di comprensione: crolla l’impalcatura. Citerei come rara eccezione al discorso la regia di Ari Aster, che mantiene alta la presenza della sospensione del senso e quindi del registro poetico.

Tutta l’arte e la letteratura in fondo ci ricordano di continuo la necessità di aprire strade di significato possibili, non certe. La domanda iniziale è il tema, e spesso la soluzione si perde nel percorso, come nei romanzi di Carlo Emilio Gadda, Elsa Morante, Dacia Maraini, o nel simbolico Stadio di Wimbledon di Daniele del Giudice, che rappresenta quello spazio vuoto nel quale il senso della ricerca del protagonista, dopo un lungo peregrinare accanito, si dissolve misteriosamente. Lo stesso Antonioni impernia tutto il suo film sopra citato su questo significato, il film è esso stesso metafora di ciò, ma voglio essere più precisa: il mio discorso non verte tanto sul senso ultimo dell’opera, quanto piuttosto sugli espedienti narrativi per rappresentarlo. La scena slegata dalla trama è una piccola metafora del senso totale, un significato espresso non con un’opera, ma con un pezzetto di essa: un microcosmo. Ma attenzione, non per questo un corpo estraneo, bensì qualcosa di intrinseco, profondamente nostro.

Il montaliano “anello che non tiene”, questo luogo in penombra, è un valore di alta necessità artistica e letteraria, poiché ci rimanda al senso ultimo della fragilità umana che talvolta ci fa sentire vacillanti, ma che per questo contribuisce a conferire armonia e a stabilire una complicità con il fruitore, che si rispecchia inevitabilmente in quella nota di naturalezza imperfetta. Restituire questo valore alla produzione cinematografica significherebbe recuperare il luogo della poesia e la dimensione dell’incertezza che è soglia sottile di tutte le nostre azioni. Ovviamente per essere convincente questo valore poetico deve essere espresso con la massima sincerità dall’autore, e su questo farei un inciso: l’utilizzo odierno di valori etici dei più nobili, come inclusione, rispetto, accettazione, lotta alla discriminazione, è spesso svilito e ridotto a pura esibizione retorica, poiché questi criteri vengono sfruttati per ottenere visibilità e successo, per cui in molti casi l’autore che adotta queste tematiche in una trama lo fa in modo pretestuoso e non sincero: il valore diviene uno strumento per farsi apprezzare, non è più espressione e convinzione personale. In questo senso, il tema valoriale perde importanza: che senso ha esibire valori in cui non si crede? Che peso, che responsabilità assumerà l’opera rispetto al suo pubblico, anche in proiezione temporale storica?

Il senso della poesia invece è un valore più nascosto e per questo è molto più difficile da rappresentare, ma al contempo per sua stessa natura non lo si può certo fingere nè simulare: se lo si sente, lo si trasmette necessariamente con autenticità. In The Prestige, splendida opera cinematografica di Christopher Nolan del 2006, l’autore si interroga sull’autenticità dell’arte, sulla sua riproducibilità, sulla bugia che si offre allo spettatore, su quanto essa debba essere bugia e quanto realtà. E il prestigiatore, in un momento culminante del film, ci dice che la magia (metafora della creazione artistica) per essere efficace deve lasciar intuire al pubblico un varco di imperfezione. Eppure anche Nolan, utilizzando un registro di estrema loquacità, con il suo tipico grande ingranaggio strutturale, ecco, ce lo dice a chiare lettere, senza veli. E in questo modo, invece di aprire il varco all’immaginazione, lo chiude con una didascalia, sottraendo paradossalmente una fetta di magia all’insieme. Scacco matto.

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