Tecnologie Digitali e Dipendenza
- Ottobre 07, 2024
- di
- Matteo Carbone
Sono uno studente frequentante come voi, ma a differenza dei colleghi più giovani sono nato nel secolo precedente e per me la tecnologia e l’accesso all’informazione, soprattutto all’informazione continua e costante, è stato un processo graduale, un divenire.
Faccio parte, insomma, di quelli che hanno conosciuto un mondo senza smartphone, senza tablet, senza like; un mondo decisamente diverso, fatto di distanze, di attese e di silenzi. Un mondo in cui non era scontato avere un computer in casa, tantomeno un accesso a Internet e ogni cosa richiedeva la capacità di saper colmare determinate distanze e attendere precisi tempi che, inevitabilmente, ci separavano dal nostro obiettivo o desiderio.
Ho avuto il mio primo cellulare al liceo, quasi maggiorenne, un periodo non troppo remoto anche se pare un altro mondo. Non esistevano social ed ogni SMS era letto bene prima di essere inviato perché aveva un costo e farsi capire voleva dire risparmiare credito. Potremmo definirli “altri tempi”.
Via via che la digitalizzazione ha preso piede, i computer sono divenuti la normalità così come le e-mail, l’accesso ai motori di ricerca e la possibilità di accedere praticamente ad ogni contenuto da ogni luogo. Internet, oggettivamente, ha riscritto la storia delle nostre possibilità come genere umano.
Dopo il 2000 i cellulari, divenuti già da un po’ strumento di connessione e socialità, si sono diffusi a macchia d’olio e la finestra aperta sul world wide web è passata dalle nostre case alle nostre tasche. È cambiato il nostro modo di fare comunicazione, il nostro modo di parlare, di scrivere, di passare il tempo ma soprattutto di pensare la nostra relazione col mondo e con l’altro. In sostanza siamo cambiati assieme alla tecnologia che portavamo dietro.
Oggi abbiamo l’esperienza per comprendere che la tecnologia non è terza e imparziale ma, in qualche modo, portatrice di una funzione intrinseca che riesce inesorabilmente a declinare i comportamenti dei propri utilizzatori. Potremmo dire che la funzionalità determina la funzione per usare un linguaggio forse più filosofico. In questa ottica è fondamentale prestare più attenzione agli strumenti che utilizziamo perché possiedono un potenziale che, se non compreso, non può esser gestito. Del resto è questo il potere della conoscenza, comprendere in cosa siamo immersi per agire come attori e non solo come spettatori.
Quindi in cosa siamo immersi?
Con la tecnologia oggi possiamo fare cose impensabili e meravigliose! Possiamo laurearci a distanza, dialogare con persone in tempo reale dall’altro capo del mondo, contribuire a risolvere problemi creando team internazionali e disporre di capacità di calcolo inimmaginabili solo 10 anni fa.
La tecnologia ha azzerato lo spazio, sostituendo i chilometri con i dati e consentendoci, almeno a livello virtuale di spostarci e conoscere all’istante cosa accade nel mondo dando voce a tutti. Questo però comporta anche la necessità di saper valutare i contenuti, le fonti e di navigare con attenzione; requisiti non sempre presenti. Tale accessibilità e iperproduzione di contenuti può, inoltre, illudere di comprendere cose in realtà molto più complesse di ciò che sembrano.
Possiamo dire di conoscere un popolo solamente per aver letto un blog o il carattere di una persona da un commento lasciato sui social? Certo possiamo osservare il mare delle Camargue ammirando la meravigliosa transumanza dei bianchi cavalli gitani ma non conosceremo mai le nostre sensazioni dal vivo, l’odore o il sapore del cibo locale senza esser lì. La tecnologia può favorire l’esperienza ma non sostituirsi ad essa. Grazie alla tecnologia possiamo farci un’idea, conoscere altre persone per intraprendere un’avventura, ma quell’avventura dobbiamo viverla di persona se davvero non intendiamo passare la vita su uno schermo.
Tutti noi abbiamo in mano un dispositivo così potente da far impallidire i sistemi che solo pochi anni fa erano utilizzati da governi e agenzie aerospaziali ma sappiamo farne uso? Abbiamo veramente contezza del potenziale e del pericolo?
Siamo in grado di comprendere gli effetti e le conseguenze di condividere determinati dati e informazioni su di noi ad un pubblico potenzialmente infinito e per un tempo indeterminato?
Non è in gioco soltanto la privacy, tanto che si parla di un diritto all’oblio, ma anche la sicurezza personale e l’integrità psicofisica. Il cyberbullismo, così come gli haters sono un esempio lampante di come la situazione possa sfuggire di mano, soprattutto quando non si dà troppo peso alle parole che si scrivono o si pronunciano.
Se quasi tutti quindi usiamo i social, non tutti lo facciamo con accortezza, contezza e presenza.
Come in tutte le cose conoscere lo strumento che si adopera determina un valore aggiunto per noi stessi ma anche per gli altri così da evitare conseguenze non volute.
Eppure, osservo un grande affanno soprattutto dei più giovani nel postare esperienze o “taggare” versioni ideali di sé, facendo però divenire l’esperienza di turno solo vuota condivisione in grado di annichilire quel prezioso senso intrinseco che aveva: una carezza ad un animale, un primo bacio, un incontro particolare, un momento. Tutto così rischia di divenire solo un post, una foto, un commento. Siamo così presi dall’immortalare tutto che non viviamo più nulla. Rischiamo di perdere per anestetizzazione il senso proprio di ogni gesto ed il valore del momento presente tanto caro alle antiche scuole d’Oriente che insegnavano a vivere con “presenza” l’attimo, un tempo non a caso, definito “fuggente”.
Ma poi chi l’ha detto che sia tutto da condividere?
Assieme alla perdita di senso stiamo smettendo di allenare istinto e facoltà oggi sostituite da corrispettive applicazioni. Fin pochi anni fa sapevamo tenere a memoria molti numeri telefonici o complessi tragitti con i nomi delle vie; eravamo pratici con i conteggi mentali e la mente era certamente più allenata; per non parlare poi dell’attuale crollo della soglia di attenzione.
Come sappiamo, grazie a numerosi studi scientifici, la soglia di attenzione è notevolmente decresciuta sia in termini qualitativi che quantitativi a causa dell’utilizzo smodato dei social le cui piattaforme sono ingegnerizzate volutamente per catturare nella “rete” proprio l’attenzione grazie a contenuti altamente stimolanti brevi e ripetitivi. Questo costante bombardamento neuronale determina non a caso un rilascio di dopamina, un neurotrasmettitore endogeno della famiglia delle catecolammine che stimola, a sua volta, una ennesima ricerca di stimolazioni determinando una vera e propria dipendenza. Ciò produce un mutamento in peius, anche a livello fisiologico, della nostra capacità di mantenere la concentrazione dinanzi a stimolazioni differenti quali ad esempio la ricerca, lo studio e la lettura di contenuti lunghi e complessi con cui però siamo chiamati a confrontarci non da ultimo anche nello studio.
La buona notizia è che, prendendone consapevolezza, possiamo invertire questa tendenza riabituandoci senza estremismi alla disciplina con piccole e semplici regole, come dedicare un tempo stabilito a priori per consultare il cellulare durante la giornata, oppure allontanando il telefono dall’area di studio o abbassando la suoneria. Ovviamente chi è interessato può approfondire tali metodi.
Le tecnologie digitali sono, in conclusione, uno strumento molto prezioso e potente ma vanno sapute contestualizzare come ogni cosa nella vita.
Un grande scienziato del passato soleva dire “tutto fa bene, tutto fa male; l’importante è la quantità”. Oggettivamente ci sono cose che io eviterei anche in piccole quantità ma non è questo il caso.
Abbiamo solo bisogno di trovare più consapevolezza nell’uso della tecnologia così da assicurarci di usarla senza esser usati.