Navigando nel nulla: l’alienazione nell’era dei social media

Navigando nel nulla: l’alienazione nell’era dei social media

Il filosofo e sociologo Herbert Marcuse, nel suo celebre testo L’uomo a una sola dimensione, descriveva l’individuo moderno come simile a un punto senza profondità: egli può muoversi da solo, in coppia o con altri, ma è incapace di determinare alcuna direzione nel suo errare. Quest’uomo rimane alienato in un mondo che è, paradossalmente, sia vuoto che pieno: vuoto di senso e riferimenti ideologici, ma sovrabbondante di oggetti di consumo.

Questa visione dell’uomo marcusiano, che risale a circa settanta anni fa, trova una straordinaria risonanza nell’attuale era dei social media, dove l’alienazione ha assunto nuove forme e dimensioni.

Siamo ormai tutti, chi più e chi meno, dipendenti dai social. Chi non ha mai scrollato il feed di Instagram o TikTok con l’intenzione di passarci solo pochi minuti, per poi scoprire che quelle manciate di minuti si sono trasformate in ore?

Queste piattaforme hanno infatti completamente rivoluzionato il modo in cui consumiamo i contenuti digitali: si tratta spesso di video brevi, coinvolgenti, facilmente fruibili. Gli algoritmi avanzati personalizzano i nostri feed, mantenendo costantemente alto il livello di interesse e curiosità, creando una dipendenza quasi insensata.

Accedere ai propri social media equivale ad entrare in un mondo in cui si ha la percezione di poter avere esattamente ciò che desideriamo, in un’inquietante corrispondenza tra impulsi interni e stimoli esterni. E in più, la nostra visione, è teoricamente incessante: la funzione di scorrimento infinito ci mantiene agganciati, in quanto non c’è una chiara fine al contenuto disponibile.

Tuttavia, questo mondo magico, si fonda su un paradosso: ci viene offerto un contenuto che consumiamo non perché ne abbiamo bisogno o lo abbiamo richiesto, ma semplicemente perché è lì, a portata di mano. 

Più che di uomo unidimensionale, di cui parlava Marcuse, potremmo oggi definirci uomini multidimensionali, bombardati da mille impulsi e attrazioni filtrate da uno schermo che alimentano la nevrosi e la schizofrenia tipica dell’era postmoderna. I social media creano infatti un mondo affollato, anzi sovraccaricato, di volti, situazioni, fatti e notizie, che rendono il nostro errare perpetuo e incessante. 

Ci muoviamo senza sosta, stando fermi, tra un contenuto e un altro non perché mossi da un obiettivo ben preciso e senza alcun tipo di scelta consapevole. Questo universo ci appare disgregato ma opprimente allo stesso tempo, in quanto ci aliena dalla realtà concreta.

Ma perché, allora, ne sentiamo così tanto il bisogno? 

Marshall McLuhan è stato uno dei primi ad analizzare gli effetti dei nuovi media elettronici sui pensieri degli esseri umani e sulle strutture delle relazioni sociali, definendo una sorta di estetica tecnologica. Lo studioso, riferendosi in particolare alla televisione, parlava di ottundimento e di comfort dei nuovi media, perché questi ci rassicurano e ci forniscono una sensazione di conforto. 

Ebbene, credo che questa teoria si applichi alla perfezione all’epoca in cui viviamo. I social non fanno altro che colmare infatti la nostra solitudine attraverso un flusso continuo di immagini e video, non creando nuove informazioni o inducendoci a riflessioni critiche, ma piuttosto ottundendo e massaggiando la nostra mente.

Vi è mai capitato di percepire un vuoto interiore dopo ore trascorse sui social? Un agglomerato di contenuti si generano continuamente di fronte i nostri occhi per poi frantumarsi in un istante, in un flusso che manca però di significato. Passiamo in pochi minuti dalla brutalità di immagini della guerra a un reel comico o ad un video di un influencer che mostra il suo get ready with me

Tutto diventa uguale: la tragedia e la commedia, il dramma umano e la leggerezza frivola assumono lo stesso peso specifico. Questo fenomeno, descritto da McLuhan come il comfort dei nuovi media elettronici, descrive perfettamente la nostra anestetizzazione emotiva. Siamo infatti rassicurati dal flusso continuo di contenuti, ma allo stesso tempo siamo incapaci di rispondere emotivamente in modo adeguato alle diverse situazioni che ci vengono presentate.

Ed ecco allora che affiora un altro grande problema della dipendenza dai social media, quello delle emozioni. 

Il sovraccarico di contenuti a cui siamo, volontariamente, sottoposti, equivale anche ad un sovraccarico emotivo che spesso non viene però preso in considerazione. La miscela eterogenea di contenuti che fruiamo dovrebbe generare in noi un flusso di gioia, dolore, paura, ansia, tristezza senza sosta, trattandosi di contenuti tutti diversi tra loro. Ma questo passaggio repentino da un contenuto all’altro genera un tale cortocircuito emotivo che ci lascia invece completamente disorientati. E questo accade perché siamo privi del tempo necessario ad elaborare tutte queste emozioni in modo adeguato. 

Le emozioni che proviamo davanti ai contenuti digitali, sebbene scaturite online, sono reali e profonde, ma la rapidità con cui passiamo da un’emozione all’altra non ci permette di processarle correttamente. Questo flusso incessante di contenuti emotivamente carichi e contrastanti porta quindi ad un appiattimento delle nostre capacità di sentire e reagire. Non abbiamo il tempo di soffermarci su ciò che proviamo, di riflettere su ciò che abbiamo visto, di metabolizzare l’esperienza emotiva. 

Feuerbach, nel descrivere la nostra epoca, sosteneva che si preferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale, la rappresentazione alla realtà. E questo sembra particolarmente vero oggi, nell’era dove tutta la nostra conoscenza è filtrata dai social e dove la nostra capacità di provare emozioni profonde è costantemente minacciata da un flusso incessante di stimoli superficiali.

Viviamo una vita dove siamo solo spettatori e non più protagonisti, dove siamo tutti connessi ma ci sentiamo profondamente soli. 

La più grande sfida della nostra epoca è quella di riscoprire il valore delle emozioni genuine, di rallentare il ritmo incessante della nostra esistenza digitale e di riconnetterci con ciò che ci rende veramente umani: la capacità di sentire, riflettere e vivere pienamente ogni esperienza.

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