Le parole come specchio della cultura, delle alleate per lotta al sessismo.

Le parole come specchio della cultura, delle alleate per lotta al sessismo.

Sessismo: Termine coniato nell’ambito dei movimenti femministi degli anni Sessanta del Novecento per indicare l’atteggiamento di chi tende a giustificare, promuovere o difendere l’idea dell’inferiorità del sesso femminile rispetto a quello maschile e la conseguente discriminazione operata nei confronti delle donne in campo sociopolitico, culturale, professionale, o semplicemente interpersonale. (Treccani)

Il sessismo per definizione comprende quindi, comportamenti, atteggiamenti, opinioni volti a discriminare il sesso femminile, sottolineando il fatto che è stato per molto tempo il genere maschile quello predominante, e, nonostante le lotte femministe degli anni Sessanta del secolo scorso e quelle che continuano tutt’ora, purtroppo, siamo ancora lontani dalla cosiddetta “parità di genere” che tanto desideriamo.

Negli ultimi anni, inoltre, si sta sviluppando una sensibilità ai cosiddetti “gender fluid”, cioè quelle persone che non si riconoscono in un genere solo, ma passano da uno all’altro, in un lasso di tempo variabile. Queste personalità, adesso più libere di mostrarsi per quello che sono, aprono nuove questioni, anche di linguaggio, per quanto riguarda il modo più corretto e rispettoso di riferirsi a loro.

L’attenzione al linguaggio, sta crescendo di giorno in giorno anche e forse soprattutto, sui social, in cui spopolano nuovi modi di sostituire con un genere neutro il maschile sovraesteso, e sono diventati tra i più potenti veicoli diffusione di idee, opinioni e consuetudini anche nella lotta alla “parità di genere”. Alcune pagine Instagram si sono elette pioniere di questa lotta e dell’inclusione, e stanno avendo un ruolo fondamentale nella diffusione dell’uso della schwa (ə), degli asterischi e di altri simboli, per riferirsi a gruppi i cui componenti sono di sesso misto, o alle personalità gender fluid, alcune di esse rivendicando l’importanza che assumono le parole nell’educare all’inclusione fin dall’infanzia, accanto alle piccole e grandi azioni quotidiane.

Così spopolano post che si rivolgono a tuttə o tutt*, forme di facile utilizzo nella forma scritta e informale del web, ma, nella realtà di tutti i giorni, cambiare la grammatica è tutta un altra questione.

Uno dei problemi maggiori sarebbe la trasposizione di termini scritti nella lingua orale. Infatti questi simboli sono difficilmente traducibili nel parlato, la lingua italiana non prevedendo il neutro, non ha un suono che lo denota, relegando queste rivendicazioni, appunto, solo alla lingua scritta. (Accademia della crusca, un asterisco sul genere)

Ma quindi quanto davvero può incidere la grammatica italiana nella lotta alla “parità di genere” e alle rivendicazione di chi invece, un genere definito non lo ha?

Sempre l’accademia della crusca fa notare come in italiano non ci sia una sistematica corrispondenza tra genere grammaticale, che si inserisce e accorda col sistema lingua, e genere naturale, quello cioè del significato, dell’ente a cui si riferisce. Ci sono nomi femminili che si riferiscono al genere naturale maschile, come per esempio “maschera” nella frase: “Arlecchino è una maschera”, altri invece maschili che si riferiscono a ruoli ricoperti soprattutto da donne, come “soprano” e “contralto”. La distinzione grammaticale tra maschile e femminile, va, spesso, ben oltre la distinzione naturale, e il maschile in molti casi diventa un genere grammaticale non marcato, cioè slegato dal riferimento extralinguistico, per convenzione e tradizione, che si utilizza per indicare gruppi i cui appartenenti sono di sesso misto, perdendo la valenza di indicatore di mascolinità.

Un’altra questione spinosa è quella dei nomi di professioni, che sono di loro natura soggette alle oscillazioni grammaticali connessi al referente extralinguistico.

Se fino a qualche decennio fa erano di largo utilizzo le forme femminili con i suffissi -essa,

-trice (forme grammaticali nate nell’Ottocento), a partire dalla seconda metà del Novecento, con i movimenti femministi che rivendicano parità di diritti, si assiste a un calo di utilizzo di queste forme, sentiti come maggiormente femminilizzati e discriminanti.

Così l’avvocatessa diventa l’avvocata, la soldatessa diventa soldata, l’architetto al femminile si declina architetta, e una donna che presiede un’assemblea si chiama “la presidente”.

I movimenti femministi si sono battuti per ottenere pari dignità giuridica ed economica, non solo nei fatti e ma anche nelle parole.

Forse non tutti sanno che fino a pochi decenni fa il suffisso -essa, più che la forma al femminile della professione, indicava l’essere la moglie del corrispettivo maschile: la presidentessa era così la moglie del presidente, che non ricopriva, quindi, il ruolo di guida e presidenza. Il fatto che non esistesse un nome femminile perfettamente corrispondente, come significato e valenza giuridica, al termine maschile “presidente”, implicita l’idea che questo fosse un ruolo prettamente maschile, e fosse davvero raro che lo stesso fosse ricoperto da una donna.

Oggi per fortuna non è più così, e molte donne diventano presidenti di assemblee più o meno importanti. Con l’ultimo mandato di governo in corso abbiamo visto nominare Presidente del Consiglio dei Ministri Giorgia Meloni, la prima donna, e speriamo non l’unica, a ricoprire una carica così importante nel nostro ordinamento giuridico. Nonostante la scelta più o meno discutibile di essere chiamata “il presidente” e non “la presidente”, è sicuramente importante riflettere su come il linguaggio è, almeno in parte, una lente che filtra il modo di vedere e giudicare il mondo, ed è comunque doveroso dare il giusto peso ai nomi che si danno, e in questo caso l’uso di presidente invece che presidentessa, è certamente un modo per affermare l’uguaglianza di genere.

Alla luce di tutte queste considerazioni, si sottolinea come sì, le parole abbiano un peso e siano importanti perché sono lo specchio della cultura, e racchiudono in sé la storia e l’evoluzione stessa di una cultura (basterebbe cercare alcune etimologie, per rendersi conto di come il significato delle parole si sia evoluto fino ai giorni nostri in relazione, in un certo modo, al modificarsi delle culture), ed è vero che la lingua si evolve a causa o grazie a quella massa parlante che individuano Saussure e i suoi seguaci, ma è altrettanto vero che il sistema lingua ha le sue regole che non possono essere stravolte, quantomeno non in modo così radicale, come qualcuno auspica.

L’attenzione alla lingua è, quindi più che lecita e giusta ma bisognerebbe chiedersi quanto, sul piatto della bilancia della lotta alla “parità di genere”, pesi la grammatica, e quanto invece pesino le idee e i comportamenti sessisti, che ancora oggi purtroppo sono ordine del giorno. Bisognerebbe chiedersi se davvero, eliminare il maschile sovraesteso sia così importante e decisivo, o se invece, a volte, è soltanto un voler “fare vedere che siamo attenti” perché si sa che le parole, se non sono accompagnate dai fatti, perdono valore.

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