La sala professori – O sull’entropia della (micro)società

La sala professori – O sull’entropia della (micro)società

Il film diretto da İlker Çatak mostra una quantomai cruda e sfaldata realtà scolastica, dunque sociale, con cui bisogna fare i conti.

Ci vediamo in centro. Fra tutti, nel film un oggetto in particolare possiede la carica simbolica più alta, rappresentando l’unico segno tangibile di un legame sincero ed emotivo tra la professoressa Novak ed il suo studente, Thomas: il cubo di Rubik. Com’è noto, la sua struttura si compone di sei facce – o, in questo contesto, sfaccettature – rappresentando la componente multiprospettica alla base del film. Se tra i vari personaggi non sembra esistere un filo rosso a tenerli uniti lungo tutta la vicenda, il cubo, al contrario ha una caratteristica intrinseca e distintiva: ogni sua faccia ha un suo centro che fa da perno e riferimento per un’organizzazione compatta ed equilibrata. Oltretutto, la sua struttura di oggetto tattile ed analogico, richiama ad un’epoca lenta e lontana costituita da ruoli sociali definiti.

Bella questa scuola! La contrapposizione tra la solidità della struttura scolastica e la società scolastica liquida prossima al collasso è evidente agli occhi dello spettatore. La prima è composta da ampi spazi moderni e vivibili con strumenti all’avanguardia. Al contrario, chi vive questi spazi è cittadino della “società liquida” descritta da Z. Baumann, in cui “con la crisi del concetto di comunità emerge un individualismo sfrenato, dove nessuno è più compagno di strada ma antagonista di ciascuno, da cui guardarsi.” In quest’ottica, l’identità dei personaggi (e dei ruoli sociali che ricoprono) si fa ambigua: la preside, i docenti (non più “corpo docenti”), i genitori, e gli studenti sono anche giudici, giurie, e vittime dell’assenza di certezze, ed identità secondo il principio per il quale “tutti possono essere tutto”, inseguendo ed acclamando l’illusione della libertà espressiva individuale.

“Questa è censura!”. Anche l’informazione e i mezzi con cui si diffonde non seguono la loro stella polare. Purtroppo, in una società che si nutre della diffusione della privacy (secondo il principio del “devo sapere”) l’“io” di ciascuno scema in un “noi” appianante e giudicante. Per questo, i giornalisti della scuola, incapaci di controllare il potere di cui dispongono ed incuranti più che mai delle conseguenze a lungo raggio che comporta la scelta delle parole, si improvvisano latori di una verità assoluta e privata sia di sfumature umanistiche che considerazione per l’oggetto dei loro articoli. Si assiste, in questo modo, ad una democratizzazione dei mezzi d’informazione senza alcun rispetto per la gerarchia dei ruoli, dove l’uguaglianza è posta in primo piano rispetto all’equità ed al percorso che comporta avere un determinato ruolo.

Eroi cercasi. La professoressa Novak durante una lezione di matematica sostiene fermamente l’importanza di avere metodo per differenziare le opinioni dai fatti comprovabili. Decisa in prima persona a scoprire i colpevoli di alcuni furti che colpiscono la scuola (tra i quali si vedrà anche un’insegnante), lascia il portafoglio nella giacca a portata dell’inquadratura del suo portatile. Seppur il portare alla luce i responsabili dei furti sia un fine nobile, il procedimento non rispetta le norme vigenti, come ribadito dalla Dirigente, anch’essa rea di un’amministrazione della giustizia irrispettosa della legge. La professoressa Novak priva il film di un eroe positivo a cui riferirsi, ispirandosi al principio machiavellico de “il fine che giustifica i mezzi”.

To listen or to feel? That is the question. Dopo la restituzione di un compito in classe, gli studenti chiedono la stesura di una classifica dei voti alla lavagna per (far)vedere chi fosse il migliore. Ciò implica il controllo ed una maggiore attenzione sul risultato (temporaneo come nel caso di una verifica) e non su percorso svolto (e da svolgersi), figlio diretto di un impegno costante e paziente. Si privilegia l’illusione della qualità del “tutto e subito”, rispetto ai risultati concreti sul lungo termine. Viene data, altresì, importanza maggiore ai sensi “superficiali” della vista e dell’udito (rivolti prevalentemente al confronto ed alle dicerie), ed accentuati dalle tecnologie, rispetto al sentire “interiore” per i propri e gli altrui stati d’animo.

“G” come “genitori” e “giuria”. La sequenza si svolge nella classe della professoressa Novak, intenta ad esporre ai genitori l’andamento scolastico dei loro figli. Normalmente, la comunicazione avvenirebbe secondo un modello top-down, in cui la docente si rivolge ad una platea di uditori, richiamata anche dalla disposizione della cattedra rispetto ai banchi ed alla planimetria dell’aula. Al contrario, nella società dei social media, in cui ogni individuo rappresenta un nodo della rete ugualmente (mai equamente) importante e la divisione dei ruoli non è più a favore del professionista titolato dell’educazione, bensì di una massa deresponsabilizzata, iperprotettiva, ed armata di supponenza. Poiché avviene questo appianamento, la massa si concede una libertà di opinione priva di fondamento ed ogni insuccesso, più o meno grande che sia, diventa automaticamente colpa di qualcun altro (nella scena si parla di “fallimento personale” della docente per un’insufficienza di uno studente). Questo si riflette anche sui metodi d’insegnamento contemporanei, in cui l’insegnante non è più sinonimo di guida, ma è un pari degli studenti finalizzato all’ottemperamento dei loro bisogni, pena un’opinione negativa nella pubblica piazza. Ricordo l’etimologia di “docente” (dal latino “docēre”: insegnare – professionista dell’educazione) e di “educazione” (dal latino “educĕre”, da “ex-“ e “ducere”: tirare fuori dall’individuo e contribuire allo sviluppo di conoscenze e competenze).

La sconfitta sul trono. La sequenza finale del film mostra un Thomas sospeso (e fiero di esserlo) per la violazione di numerose norme scolastiche e morali finalizzate ad una difesa cieca ed automatica della madre, incriminata del furto del sopraccitato portafoglio. Lo studente, durante la sua resistenza passiva, viene sollevato con tutta la sedia da due poliziotti e portato fuori da scuola. L’ambiguità è sconvolgente: il comportamento di Thomas è il risultato di un fallimento educativo “da parte di entrambe” (per citare la docente rivolta alla madre del bambino, parole scelte non a caso); mentre, proprio grazie ai suoi atti, Thomas è fiero di aver trovato il coraggio e la forza di difendere e difendersi, di crescere, consapevole anche di aver lasciato un segno nella scuola e nella vita dei propri compagni che echeggerà a lungo. Permane un interrogativo: i numerosi Thomas (troppo piccoli e scaraventati nel mondo degli adulti) riusciranno a destreggiarsi nella scala di grigi e sfumature della realtà?

Essere docenti comporta il seguire determinati valori e metodi, e lo stesso vale per i genitori. Così non fosse, come illustrato nella pellicola di Çatak, vivremmo in una società orwelliana in cui, per definizione, tutto è il contrario di tutto. Mancheranno, così, i principi ed i doveri intrinseci impliciti in ogni ruolo sociale, cosicché per taluni 2+2 farà 5; mentre per altri farà 22. Allora, sarà l’inizio di una guerra tra poveri ed aridi di spirito.

Autore

×