Effetto spettatore: uno studio di Psicologia Sociale

Effetto spettatore: uno studio di Psicologia Sociale

Il sacrificio di Kitty Genovese

La psicologia sociale risponde ai nostri quesiti sulla natura e la mutua interazione tra individui, lasciandoci spesso con l’amaro in bocca e facendoci scoprire più vili di quanto pensiamo di essere.

Lo dimostra uno studio molto singolare che affonda i presupposti in un terrificante fatto di cronaca nera, avvenuto del 1964 a New York, a danno di una donna di 28 anni: Kitty Genovese.

È notte. Un uomo la vede all’uscita dal lavoro e la segue fin sotto casa. Si chiama Winston Moseley. Riesce a raggiungerla a pochi metri dal portone e la pugnala alla schiena.

Kitty comincia ad urlare, a chiamare aiuto. Qualcuno, nascondendosi dietro una finestra, intima all’uomo di lasciarla stare. Moseley fugge, ma nessuno -nemmeno l’uomo dietro la finestra- esce per soccorrere la donna.

Da quel momento in poi, gli eventi di quella sera si intrecciano in modo rovinoso per Kitty.

È gravemente ferita, non riesce ad alzarli da terra per dirigersi verso casa e trovare riparo. Le basterebbe trascinarsi per pochi metri per trarsi in salvo, ma l’aggressore torna e, indisturbato, riprende ad accoltellare Kitty, fino ad ucciderla; poi abusa di lei.

Presto, il New York Times scrive dell’accaduto, parlando di 38 possibili testimoni dei fatti, vicini di casa e presunti amici di Kitty, che non hanno fatto niente per salvarla.

Mentre Moseley (arrestato causalmente per un banale furto di televisori) confessa di aver riservato lo stesso trattamento ad altre due donne, la polizia interroga coloro che vengono ritenuti i testimoni silenti -complici, in qualche modo- di un omicidio e di una violenza.

E si giustificano, dicendo di aver sottovalutato la situazione, di aver pensato che sarebbe stato qualcun altro ad agire. Questa è la risposta più sconfortante e diffusa; qualcuno addirittura dichiara di aver continuato tranquillamente a dormire.

Il testimone più attendibile -realmente amico di Kitty, per lo meno così si definisce- dichiara di aver riconosciuto le sue urla disperate, ma di non essere intervenuto per paura e non dell’aggressore, ma di possibili ritorsioni della polizia. In quanto omosessuale (ricordiamo che siamo negli USA degli anni ’60, epoca in cui gli omosessuali vengono ritenuti addirittura più violenti di altri, per crimini passionali), ha preferito non esporsi e chiedere consiglio ad una vicina, lasciando trascorre minuti preziosi e interminabili che fanno precipitare la situazione; che determinano il ritorno di Moseley sul luogo del delitto e la morte di Kitty.

In sostanza, l’omertà abita il quartiere di Kitty e il senso di responsabilità collettiva la uccide.

La sua tragica fine ispira racconti, film, canzoni; uno studio psicologico chiamato “effetto spettatore” o “complesso del cattivo samaritano”.

Il caso diviene uno dei più discussi nella storia americana; il sacrificio di Kitty contribuisce alla creazione del 911, la linea per le chiamate di emergenza, prima affidate ad un centralino random.

Altri esperimenti sociali hanno simulato situazioni simili, permettendo di trarre inquietanti conclusioni: la possibilità di essere soccorsi, in caso di pericolo o aggressione, è inversamente proporzionale al numero di persone che assistono al fatto. Maggiore è il numero di individui presenti, maggiore sarà la possibilità che ognuno pensi “non tocca a me intervenire”. Si ricordi il recente caso del fotografo René Robert, lasciato morire per strada a Parigi, senza essere soccorso per ben nove ore.

Quanto facilmente dimentichiamo che ognuno di noi potrebbe essere Kitty Genovese!

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